Lettera aperta al me di novant’anni

Caro me di novant’anni,
ciao.

In realtà non so se esisterai. Qua sulla Terra abbiamo appena scoperto che mangiando la pancetta si muore, e io non credo di essere disposto a rinunciare a un bene così grande. I vegani hanno vinto, e molto prima di quanto loro stessi si aspettassero. Spero che questa lettera arrivi solo a te, perché ho scoperto che nel Duemilaquindici si prendono praticamente tutti sul serio, e non è possibile fare dell’ironia senza aggiungere subito dopo che si sta scherzando.
Dunque, nonostante io, mansueto ma ostinato carnivoro, non possa essere certo che esisterò ancora tra una sessantina d’anni, provo lo stesso a scriverti qualcosa. È molto difficile interloquire con un essere umano al giorno d’oggi, a meno che l’argomento di conversazione non abbia a che fare con Valentino Rossi, ma temo di essere l’unica persona della penisola a non sapere che caspita sia successo al mondo del motociclismo, quindi capirai che mi sento un po’ solo: ecco perché ho deciso di scriverti.
Chissà che aspetto avrai. Ho il timore che sarai un po’ grasso, abbandonato da tempo da quell’invidiabile metabolismo che un tempo ti rendeva magrolino e praticamente invicibile. Ma sì, la mia parte pessimista, cioè la mia persona nella sua totale integrità, ti immagina svaccato, svaccato ma tutto sommato sereno. Con ponderata sapienza hai accolto la bruttezza, la pancia, la stempiatura, le rughe e tutto il resto. Chissà se sarai ancora pessimista, chissà se avrai un briciolo di cultura vera o se terrai seminari sulle popstar alle università. Chissà che musica ascolterai, a proposito. Probabilmente Adele avrà pubblicato il suo quattordicesimo album dal titolo 87 e Madonna sarà ancora a ballare come una pazza sui palchi di mezzo mondo, dato che la scienza sarà così evoluta da aver trovato finalmente il modo per tenerla in vita.
Chissà se sarai sposato. Chissà se l’Italia sarà pronta, per allora, a riconoscere l’amore tra due persone dello stesso sesso. Chissà se avrà superato l’ignoranza e il qualunquismo di oggi, o se ci sarà ancora chi dirà, nei bar come su facebook, che “ci sono altre priorità”, prima di tornare a occuparsi di Valentino Rossi e della Juve. Chissà se la gente dotata di cervello continuerà a sgrillettarsi su futili questioni filosofiche pur di non schierarsi definitivamente dalla parte della Storia.
Chissà quanti libri meravigliosi avrai letto, quante storie ti sarà venuto voglia di raccontare. Chissà se ci sarà ancora qualcosa in grado di commuoverti, o se avrai visto così tante cose che sarà impossibile sorprenderti. Chissà se la Bellezza riuscirà a stregarti e salvarti ancora.
Chissà quando avrai superato l’insicurezza, e chissà se ci saranno stati momenti in cui il mondo sembrava davvero casa tua. 
Io spero che quando leggerai questa lettera sarai circondato dagli stessi amici che ho io adesso. Sono piuttosto sicuro che tra poco chiamerai Ciuffo e Giuli, e Elisa, per dir loro che hai ritrovato una lettera che ti sei scritto sessantaquattro anni fa. Spero che non avrai dimenticato come si stava. Sono certo che la vita non ti avrà fatto cambiare idea sulla bontà, che è disarmante.
Con affetto,
Il te di ventisei anni.

Gli ombrelli cinesi

L’inferno sono gli altri.
– Sartre
You can stand under my umbrella.
– Rihanna
Siccome mi piace cambiare, compro sempre gli ombrelli nei negozi dei cinesi. 
Mi sono ritrovato in una strada di Torino senza essere in possesso di un ombrello. Si è messo a piovere, perché presto o tardi succede, che piove, e a Torino tende a succedere prima. Sapete, qua piove molto, e all’inizio non ci ero abituato. Non che nelle altre città non esista il maltempo, ma a Torino la pioggia fa parte dell’immaginario collettivo, un po’ come le gondole a Venezia, le piadine a Rimini, i fashion blogger a Milano
Di solito capita che dopo le prime settanta gocce di pioggia accorrano in nostro soccorso svariate decine di venditori dotati una straordinaria quantità di ombrelli. In quell’occasione non è successo, cosicché sono entrato in un negozio di cinesi. Quando parlo di “negozio di cinesi” non intendo un posto dove vengono venduti cinesi, sebbene gli esseri umani siano l’unica cosa a non essere commerciata in questo tipo di negozi: qui puoi trovare qualsiasi cosa, dalle scarpe tarocche alle paperelle da bagno. Lo scatolone fabbricone dell’Albero Azzurro altro non è che una versione portatile di un negozio di cinesi. Dodò cucina i gatti nella wok. 
Così sono entrato e ho chiesto un ombrello. La tizia alla cassa, che è magra e coi capelli neri e probabilmente è la stessa in tutti i negozi di cinesi d’Italia, mi ha indicato una scatola piena zeppa di ombrelli di vari colori. Ne ho comprato uno bianco, intanto perché quello leopardato non credevo s’intonasse con la mia giacca, e poi perché spinto da una solidarietà multietnica volevo evitare alla signorina l’imbarazzo di dover pronunciare un colore con la erre (“pel questo omblello velde lamallo elettlico sono tle eulo e tlenta, glazie”). 
Ma con l’ombrello bianco non ha funzionato. Quella sera sono uscito con un ragazzo, e per per non sembrare Glinda la Strega buona del Sud, mi sono fatto un pezzo di strada sotto la pioggia. Meno male che a Torino ci sono i portici, e che gli ombrelli cinesi sono praticamente usa e getta.
Ben presto, infatti, sono finito in un negozio di cinesi a comprarne un altro. Stavolta me ne sono fregato altamente degli inevitabili difetti di pronuncia della tizia magra e dai capelli neri che costituiva la prova vivente che la scienza orientale è già arrivata alla clonazione umana, e ne ho comprato uno rosso. “Sì, vorrei questo ombRello Rosso non pRopRio poRpoRa ma più scaRlatto, gRazie.” Quando voglio so essere davvero uno stronzo, anche se poi i sensi di colpa sono così forti che mi chiudo in casa per una settimana a scrivere post dalla dubbia moralina filosofica. 
Ma nemmeno col rosso è andata bene, perché poco dopo aver dispiegato le sottili ed estremamente fragili stecche dell’ombrello mi sono accorto che quel colore in mano ai cinesi è terribilmente acceso. Non per niente lo mettono anche sulla loro bandiera. Mentre giravo per le strade grigie di Torino, ero una patacca rossa in un film in bianco e nero. Sembravo la bimba di Shindler’s list, e tutti noi sappiamo la fine che fa.
Ma tanto l’ombrello si è rotto dopo pochi giorni, e rieccomi dentro un terzo negozio di cinesi dove trovo la tizia magra e dai capelli neri che forse non sarà l’equivalente umano della pecora Dolly ma allora è di sicuro il prodotto di un immenso parto plurigemellare. Stavolta scelgo un ombrello nero. Raffinato, elegante. Il nero sta bene su tutto, e oltretutto sfina. L’ombrello nero si amalgama nell’aria uggiosa, non c’è contrasto né stonatura, una perfetta soluzione per passare inosservati e in qualche modo perseguire la normalità.
Oggi ho incontrato una sconosciuta che aveva un ombrello giallo. Ho pensato che non era poi così male. 
E ho notato anche che: nessuno fa caso agli ombrelli degli altri, mai.

Mr Pinco Pop e l’esistenza

Ho un orsetto di peluche che si chiama Mr Pinco Pop.
Ieri, io e lui abbiamo parlato dell’esistenza.
Prima di spiegarvi la filosofia di Mr Pinco Pop, vi descrivo come è fatto: è un orsetto dal musino tenero, alto quanto una mia mano aperta, quindi una quindicina di centimetri, o forse poco più perché io ho le dita da pianista. La sua caratteristica principale riguarda la sua colorazione che riprende la bandiera arcobaleno, quindi dalla testa ai piedi (è un orsetto antropomorfo, non ha quattro zampe bensì due piedini e due manine) è diviso in sei fasce, ognuna per i sei colori della bandiera. Non si può dire che sia l’orsetto più intelligente del mondo, ma è sveglio e ha un senso critico molto sviluppato. Non capisce mai il sarcasmo, ma ha un cuore d’oro. È nato quando un unicorno ha incontrato la Cattiveria: l’unicorno ha vomitato, e dal suo vomito ha avuto origine Mr Pinco Pop. Un giorno, magari, vi racconterò anche questa storia.
Ieri Mr Pinco Pop era in vena di fare filosofia. Mi ha detto che gli orsetti si dividono in due categorie: quelli a cui va sempre tutto bene e quelli a cui va sempre tutto male. Non ha ancora capito se è una legge che dipende in qualche modo dalla fortuna. Poi, sottovoce, ha aggiunto che si vergogna a parlare di fortuna, perché nella città degli orsetti chi si sente sfortunato viene svalutato ancora di più. La fortuna esiste, è solo una delle due facce del caso, ha detto. Mr Pinco Pop ieri mi ha spiegato che ci sono gli orsetti a cui va tutto bene e gli orsetti a cui va tutto male, e non c’entra proprio un bel niente il talento o la bravura o la determinazione. Ha detto esattamente così, “non c’entra proprio un bel niente”. Ci sono gli orsetti che non devono muovere un muscolo perché comunque capitano al posto giusto e al momento giusto, e ci sono anche gli orsetti che ci nascono, al posto giusto e al momento giusto. L’altra categoria è quella formata dagli orsetti che possono impegnarsi quanto vogliono, possono essere bravi, e buoni, e prendere tutti i trenta e lode che vogliono, e sperare sempre e non arrendersi mai, ma non riusciranno mai a trovarsi al posto giusto e al momento giusto. A volte gli andrà anche peggio. Nella città degli orsetti aleggia perfino la leggenda che la ragione di questa sfortuna parta proprio dal fatto che sono gli orsetti a cui va tutto male a non impegnarsi a sufficienza. Mr Pinco Pop non ci crede, però. Sostiene che gli orsetti a cui va tutto bene abbiano messo in giro questa voce per non far attribuire il loro successo soltanto al caso propizio. 
Poi ho detto qualcosa io, perché non è che nelle conversazioni tra me e Mr Pinco Pop parla solo Mr Pinco Pop, altrimenti sarebbe un monologo, anche se un monologo molto avvincente. Gli ho detto che è molto dolce a volermi consolare, perché lo so che mi dice tutte quelle cose solo perché crede che se io fossi un orsetto sarei uno di quelli a cui va tutto male, ma gli ho detto anche che non occorre. Se sei un orsetto triste, ciò che ti può far stare meglio è il fatto di poter contare su quel coraggio che si legge negli occhi di una faccetta tenera come la sua.

Lettera aperta a Zucchero Sintattico

Ciao blog.
Ho deciso di scriverti perché non l’ho mai fatto. In cinque anni che esisti, non ti ho mai parlato direttamente, e credo che questo sia dovuto al fatto che un certo quantitativo di sanità mentale sono riuscito a mantenerlo; ma ormai sono partito, svitato, svanito, completamente esaurito, e pertanto posso permettermi di scriverti, anche se in realtà tu sei la parte virtuale di me, nel senso che io in questo momento sto scrivendo a un’entità non pensante, ma cambiamo argomento che è un attimo poi che mi internano e senza dirmelo comprano da mia madre i diritti per fare un film su di me, una di quelle cose tristi che mandano su Rai 5 in seconda serata.
Caro blog, prima di scriverti mi sono riletto qualche post di questi cinque anni. È buffo, perché ci si accorge bene di quanto sia cambiato. Be’, ovviamente adesso scrivo un pochino meglio, e ho imparato anche a dosare le parole in modo da filtrare solo le sensazioni che voglio pubblicare. In pratica, tu non sei proprio proprio me, così come i miei altri profili virtuali non sono proprio proprio me. Non credo che sia un grande vantaggio, in realtà, perché poi le persone iniziano a fare confusione tra te e me, leggono te e credono di conoscere me, con la conseguenza che per far conoscere me (e non solo te) devo faticare un po’ di più. Ma preferisco così, perché odio spiattellare su internet quello che provo. Quello che penso, ecco, quella è un’altra cosa. Anche perché di solito penso scemenze. Se c’è una cosa di cui ho il coraggio, è della mia demenza. Tutti dovrebbero avere il coraggio della propria demenza.
Nell’ultimo anno, poi, direi che sei stato fondamentale. Certo, mi aspettavo che mi assumessero nello studio grafico quando ho detto loro di te, ma tra tutti i post che potevano leggere, sono andati a finire proprio su quello con le mie conversazioni su Grindr. Sei stato importante per un sacco di cose, in quest’ultimo anno, e tra quelle che voglio dire ci sono sicuramente i Macchianera Italian Awards. Siamo arrivati quinti, che è una posizione oltre ogni aspettativa. Ho quasi rischiato di montarmi la testa, ma sono realmente troppo sfigato per farlo. Questa cosa della sfiga, alla fine, è una fortuna.
Ho la vaga percezione che questa lettera faccia sfrantecare le palle da quanto è noiosa. Per ravvivarla ci sono due strategie: la prima è quella di inserire qualche cazzo di fottuta espressione colorita, cazzo, e la seconda è quella di concludere. Volevo concludere ringraziando i tuoi lettori: quelli di ora, che sono tanti, adorabili, cattivelli, sapientini, riservati; e quelli che se ne sono andati, perché non gli piaccio più o perché hanno di meglio da fare o perché è finita o perché ora mi odiano o perché io li amo; e poi quelli che ci sono sempre stati, silenziosamente o meno, perché sono un po’ la famiglia di Zucchero Sintattico, che è una bella famiglia. Se sei riuscito a farli sorridere anche solo mezza volta, o a farli pensare/emozionare/distrarre in qualche modo, se tu sei riuscito a fare questo, allora io sono soddisfatto.
Tanti auguri, Zucchero Sintattico. Cinque anni di scemenze. Tra parentesi.

Pronto? Sì, sto tornando

Sì, tutto bene. Sono sul treno adesso. Tranquillo, posso parlare. No, non sono solo nel vagone: c’è un’unica italiana sulla quale eviterò ovviamente di fare considerazioni, ma per il resto la compagnia è composta da due americane delicate come la contessa De Blanck e una giapponese che incarna perfettamente lo spirito della giapponesità: ringrazia unendo le mani a preghiera e facendo un mezzo inchino con la testa. E ovviamente sorride. Mi ricorda un po’ una versione meno idiota di me. Niente in confronto col viaggio di andata, comunque: ero su un intercity Salerno – Torino pieno zeppo di napoletani agitati. Nulla contro i napoletani, ma tendono a interagire urlando.
Sì, Torino è favolosa. Orientarsi è semplicissimo, è un reticolato di strade, cioè le vie sono fatte tipo le calze di Rihanna, quelle a maglia larga per intenderci. Le piazze sono enormi, i palazzi alti. Si respira l’aria di una grande città, ma senza tutto il caos di Milano o di Roma. È come se tu non fossi obbligato ad avere una vita frenetica, nonostante la città lo permetta. E anche i torinesi mi piacciono: mi erano stati descritti come degli italiani freddi, e invece ovunque andassi ho trovato scherzi e sorrisi.
Casa mia? È in pieno centro, è vicina a tutto. La posizione è eccezionale, l’altra sera sono sceso e mi sono trovato in mezzo a un concerto. I miei coinquilini sono dei ganzi – uno è della Valle D’Aosta e appiccica adesivi di baffi ovunque, e l’altro è di Bolzano e parla tutto buffo, sì, praticamente io sono il terrone della casa. La mia stanza è fantastica. Sì, lo so, ho esaurito gli aggettivi a connotazione positiva e adesso mi tocca ripeterli. Oddio, diciamo che la mia mansardina è diventata un gioiello adesso che non sembra più l’ambientazione di un romanzo di Lovecraft. Ho passato due giorni a pulire tanto che adesso trasudo Lysoform. Sì, ho pulito col Lysoform. Sarebbe stato più utile il Necronomicon, te lo dico io. 
L’unico problema della camera è che non va la luce, ma ho risolto comprando una abat jour. Ma te lo sapevi che esistono diversi tipi di lampadine? Sono andato a comprarla, e il commesso mi ha chiesto se ne volevo una grande o piccola. Grande, dico io, ché nel dubbio uno punta sulle dimensioni. Ma è chiaro che invece ci voleva quella piccola: tutto l’universo cospira affinché tu faccia la scelta sbagliata quando hai il cinquanta per cento di probabilità di fare quella giusta. 
L’inaugurazione della Holden è stata quanto di più figo ci si possa immaginare. C’era la musica, i fuochi d’artificio, i giochi di luce, i palloni giganti, mancava giusto Regina Miami ma insomma c’era Baricco, direi che ci può stare. Ti rendi conto che negli ultimi anni sono andato a ballare in continuazione e che la festa migliore a cui abbia mai partecipato sia stata organizzata da una scuola di scrittura? Hanno capito tutto, sti intellettuali. C’avevano pure il vino senza solstizi. No, solfeggi. No, no, solfiti, il vino senza solfiti, che significa che lo puoi bere e il giorno dopo non c’hai il mal di testa. Hanno capito tutto ti dico, gli fa una sega Paris Hilton a sti qua.
Sono quasi a Genova, ci sono le gallerie tra poco. Torno giù per qualche giorno, il tempo di salutare tutti e di sbrigare le ultime cose e poi riparto stabilmente. Mi mancherete un sacco sai? Sarà proprio tutto diverso senza di voi, senza cenare con la mia famiglia e litigare sul fatto che ho troppe paia di Converse tarocche, senza le prove di martedì, che sono l’unico momento in cui mi concentro, che sono il mondo di persone con cui sto bene, senza tutti quei rituali televisivi da guardare insieme al mio amico e a mia sorella, senza i messaggini su cosa fare il sabato sera, senza la mia famiglia, senza i miei amici, senza tutto il resto.
Ma devo partire, capisci? E non perché a Lucca non c’è niente, e nemmeno perché giù non trovo lavoro. E sai, forse non è nemmeno perché scrivere è la mia vita, perché certo che lo è, ma sai, se uno vuole scrivere scrive, sulla carta igienica piuttosto, sui muri, sul retro dei francobolli, sui sassi con altri sassi, se uno vuole scrivere scrive e gli va bene qualsiasi posto, ma io non lo so se è per quello. È tutto un pretesto per dimenticare, ho questa urgenza, quella di dimenticare. Non lo so se è un discorso a cazzo, ma te lo dico: a un certo punto bisogna distruggere, prima di costruire. E io ho un mucchio bisogno di questo, di distruggere e ricominciare a costruire qualcosa di mio, senza fantasmi a violentarmi la mente, e questa è l’opportunità che ho per farlo, e vediamo come va, e mi mancheranno tanto le cene le Converse le prove guardare la tv insieme i messaggini tutto il resto ma sarà bello, per una volta, per qualche tempo, sentire la mancanza per qualcosa, sentire solo quella mancanza, la mancanza di qualcosa che invece c’è, e non la mancanza di qualcosa che effettivamente non esiste.
Non mi hai capito, vero? Sono troppo contorto. Mi dici di sì ma in realtà mi lasci solo sfogare, o forse non senti niente per via delle gallerie. In ogni caso ascolta, quello che assolutamente evitare nella vita è lasciarti tentare dalla pasta Combino della Lidl: costa poco, okay, ma fa schifo.

Il destino

Qualche anno fa non credevo nel destino. Una delle mie scrittrici preferite diceva che più che nel destino dovremmo credere nel rimboccarsi le maniche e sudare. Probabilmente sono stati anche i miei studi scientifici a influenzarmi: quando il mondo in cui vivi si basa sul provare l’esistenza del caso e smentire ogni altra forma di entità soprannaturale non dimostrabile scientificamente – sia essa il destino, il mostro di Lochness, il fantasma formaggino, Dio, Allah, l’invisibile unicorno rosa – sei portato a formarti un pensiero ben preciso su ciò in cui credi e ciò in cui non credi. 
Ma è così facile non credere nel destino, se non ci hai mai avuto a che fare.
Cominciai a simpatizzare per il destino quando dovetti interpretare questo ruolo a teatro. La commedia parlava di due streghe che rischiavano di perdere la loro immortalità, e il mio personaggio era un eccentrico signore che si divertiva a giocare con loro mandando profezie a destra e a manca. Io ero il destino, e passavo il tempo sul palco a parlare di passato, presente e futuro, dicevo di stare attenti perché ogni piccola nostra azione fa parte di un fitto intreccio di eventi concatenati, “come in un mirabolante centrotavola galattico”.
Qualche tempo fa è uscito un film di animazione che si chiama Brave, la protagonista è una ragazza dai capelli rossi e per una curiosa coincidenza io ho un debole per le ragazze dai capelli rossi così andai a vedere il film coi miei amici. Forse ci sarei andato comunque, anche se la ragazza fosse stata bionda, mora, o pelata anche, ma il punto è che l’ultima frase del film è Il nostro destino vive in noi: bisogna soltanto avere il coraggio di vederlo.
Negli ultimi x mesi mi sono successe un po’ di cose. Ho sempre il timore di dire che mi sono successe delle cose brutte, perché le vere cose brutte sono altre e bisogna saperci dimensionare, è vero; però è anche ingiusto sminuire un problema che ci riguarda solo perché non è la fame nel mondo o una malattia o un lutto. Diciamo che ci sono state cose che mi hanno fatto stare male, con tutto il rispetto. Non sarò mai felice per tutto quello che mi è successo, non dirò mai che alla fine è stata una fortuna, non mi sentirete mai essere solo anche minimamente contento per quel dolore, e il motivo è che fa ancora male. Ma non posso evitare di notare che si stava creando una rete di cause e conseguenze che mi ha portato a fare delle scelte importanti.
La sto facendo troppo lunga, non so se capite dove voglio andare a parare. Diciamo che c’è una cosa che vi devo dire, ed è una cosa bella. Io non lo so se il destino esiste o no, però adesso comincio a farmi qualche domanda.
Il proiettile corre e non sa se ammazzerà qualcuno o 
finirà nel nulla, ma intanto corre e nella sua corsa 
è già scritto se finirà a spappolare il cuore di un uomo 
o a scheggiare un muro qualunque. Lo vede il destino? 
Tutto è già scritto eppure niente si può leggere.
A. Baricco, Castelli di rabbia

A volte vorrei essere come voi

A volte vorrei essere diverso: a volte vorrei essere come voi. A volte vorrei essere come voi, che il vostro trauma più grande è l’abbandono di Anna Valle dal cast di Commesse 2. A volte vorrei essere come voi, che vi credete alternativi perché ascoltate i Muse. A volte vorrei essere come voi, che non dovete fingere di essere Mika quando dentro siete i Baustelle. A volte vorrei essere come voi, che non immaginate nemmeno quanta fortuna abbiate avuto nell’essere così incredibilmente poco riflessivi, che pensate che sia per merito vostro che adesso non avete preoccupazioni, che vi è cascata la felicità dal cielo come fosse una pioggia di diamanti. A volte vorrei essere come voi, che vivete in una massa e per la massa, che fate parte di un enorme esercito di soldatini di plastica, in mezzo a dialoghi di plastica ed emozioni di plastica. A volte vorrei essere come voi, che sudate soltanto quando siete in palestra, forse perché vi truccate prima di andarci, che non vi chiedete mai se siete tipi da aria condizionata o da finestrino abbassato, che ce l’avete tanto con la società omologata ma alla fine trovate un conformismo nel vostro anticonformismo.
E poi penso che tutto sommato mi va bene anche come sono io, antipatico, paranoico, incapace, pigro, solo, e da finestrino abbassato, perché almeno non sono come voi.

Chi sono

È tempo di ristrutturazioni grafiche per il blog. Un mio amico sta lavorando al nuovo header, ché mi ha detto che questo che ho sembra quello di un blog di natura o videogiochi; ho anche deciso di approfittare della pagina Chi sono di Blogger, già che ero in vena di cambiamenti. La trovate qui a destra, nella colonnina Social, insieme ai contatti Twitter, Instagram, Facebook, Bloglovin e sticazzissimi. Oppure qui sotto, ve la copio. Boh, ciao.
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Sembra che debba usare questo spazio per descrivermi.

Si tratta di fornire qualche informazione sufficientemente generica da non cambiare nel tempo, e questo non è semplicissimo: se c’è una cosa che ho imparato su di me, è che gli aggettivi che mi do spesso cambiano. Non lo so se è una cosa positiva o negativa. All’inizio pensavo che fosse un bene, cambiare. Ora non so. Butto lì qualcosa a caso.

Mi piace scrivere.

Spero sempre troppo.

Metto le maiuscole quando ci vogliono, l’accento acuto su perché, l’apostrofo dove serve, uso il congiuntivo e non le k, e tendenzialmente uso la grammatica italiana in maniera corretta. Se lo fanno anche gli altri mi fa piacere, ma riesco anche a passarci sopra.

Non piaccio a molta gente.

Virtualmente sì, ma è perché mi so vendere bene. Nel mondo vero no.

Sono timido. Mi piace così.

Sono buono.

Non sembra, mai.

Mi piacciono le mele cotte, la pasta, il mare, il teatro, recitare, mangiare (non sembra), comprare cose, la musica, avere idee, quando rido, non essere solo, Glee, i jeans, Darkroom dei Baustelle, i biscotti, guidare, i Florence and the Machine.

Mi piaceva essere innamorato.

Partorisco cazzate.

Sono paranoico.

Non mi so esprimere tanto bene a parole.

Mi servo dei social network per cercare di avere più visibilità (oggigiorno se vuoi fare quel che voglio fare io serve essere qua), mi racconto sul blog e narrativizzo i miei pensieri, ma la verità è che vorrei che le persone mi conoscessero davvero. Piano piano. La mia versione di ciccia.

Vorrei imparare a sognare.

Non sperare, non illudermi: sognare.

Almeno quello.

Amo i miei amici.

Amo scrivere.

Vorrei mettere una foto qui sotto, ma non ne trovo di decenti.

Vabbè. Facciamo che può andare.

Io sono quello a sinistra.

Pioggia vento merda amore

Qualcuno mi ha detto che quando nei film piove è per rispecchiare lo stato d’animo dei personaggi. E io penso che sono due settimane che piove. Tanto che il fiume vicino casa mia ha raggiunto il livello di allerta, e la cosa mi preoccuperebbe se continuasse a piovere. Invece, in questo momento (le 00:49 di una camera incasinata e priva di dignità), non piove. C’è solo un vento fortissimo che cerca di dimostrare che anche l’aria può far male. Lo senti che urla, e lo sai che spazzerà via tutto, dalle foglie alle speranze.
Qualcuno mi ha detto che quando nei film piove è per rispecchiare lo stato d’animo dei personaggi, ma nessuno mi ha detto che la realtà è molto più crudele. Piove un sacco, qua dentro. Mi piove dentro il petto, e sono gocce affilate che recidono le vene. In testa niente, solo vento, che è bravo a svuotare la mente e renderla grigia e senza sale. Le cose perdono di senso, il cuore che muore e non finisce mai, nessun rispetto verso sé stessi e flash ovunque, tantissimi flash ovunque, come in un infinito trip causato dalla peggiore droga depressiva. 
A un certo punto scatta qualcosa. È un suono più irrisorio del click di un accendino, ma è il primo dei rumori. Puoi chiamarlo bisogno di sole, se ti va.
Due cose. Primo, ho visto un film, qualche giorno fa. Parla di lei, che è matta, e di lui, che è matto, e che ha così tanto bisogno di sole che lo vede ovunque, e si arrabbia con Hemingway quando i suoi libri finiscono male, perché tutti i libri dovrebbero finire bene. Secondo, ci sono tante situazioni orribili nello stesso mondo in cui vivo io, e non occorre spostarsi in Africa, e dovremmo tenerle presente quando pensiamo che i nostri problemi siano i peggiori, dovremmo ridimensionare la cosa e capire che c’è chi affoga in molta più merda. 
Non lo so dove voglio arrivare. Forse a dirmi che è l’ora di rinascere, di smettere di avere paura, di aggrapparsi a qualcosa e tirarsi su, piano piano, sputando un po’, stringendo i denti, fingendo che non faccia tutto così irrimediabilmente schifo.
In quel film, ad un certo punto, lei urla a lui Senti, che vuoi fare con quella canzone, vuoi passare tutta la vita ad averne paura? È una canzone, non farne un mostro, e io ho pensato che siamo noi a crearci gli stessi fantasmi da cui poi scappiamo, ed è stupido. Per giorni non ho ascoltato musica, ne avevo paura, non mi dava solo noia ma mi faceva male, ma adesso, adesso che c’è così tanto vento che non sento nemmeno quello che dico, adesso volevo cantarmitici questa.