Il pugno e il cuore

Scrivere di notte è più facile, per me. Il silenzio alimenta l’impressione che tutto il mondo stia dormendo, e questa illusione che nessuno sia vivo o in grado di leggermi mi rende più sincero e, in qualche modo, più genuino.
Parlavo di fisiognomica con Giuli, prima. Mi diceva che qualche anno fa si credeva che alle dimensioni degli organi fossero associate delle malattie mentali. Tipo alla mano, infatti esisteva una specie di guanto per misurarne la grandezza. 
“Ma è vero che il cuore di una persona è grosso quanto il suo pugno?”
È verino, ha detto Giuli. Che se ne intende, visto che studia medicina. E infatti mi guardo il pugno, e ciò che vedo non è altro che la conferma di una verità che conosco da parecchio tempo e che ormai posso ammettere senza rimanerci nemmeno troppo male: e cioè che ho un cuore minuscolo.
Mi guardo il pugno, e mi fermo a cercare di capire a chi è dedicato il suo corrispettivo pulsante che ho nel petto. Sicuramente una parte ai miei amici e alla mia famiglia. Non sono così tanto egoista da non dar loro una fetta del mio cuore. Alla mia sorellina, a mamma e papà, e poi a tutti i miei amici: quelli più colorati, ma anche quelli orgogliosamente grigi, quelli che pompano nelle casse e quelli con cui la mia anima si diverte a cozzare. 
E poi c’è tutto un altro pezzo di cuore, un pezzo enorme, forse metà o anche di più; c’è tutto questo pezzo di cuore che è solo mio, è dedicato solo a me. Alle mie cose, ai miei sogni, alla vita che ho costruito. Roba mia, solo mia. Forse troppo mia.
Perché forse non è giusto. Perché forse gli altri lo sentono pulsare questo pezzo del mio cuore, ma lo sentono che è inaccessibile, che loro non possono entrare. E allora mi domando a cosa serva essere forti, e a cosa serva avere una parte di sé a prova di ogni attacco nemico, e a cosa serva possedere un cuore… se si è così egoisti da non poterlo condividere con nessuno.
Forse è per questo che il mio cuore è minuscolo.

Ho un’amica che non credeva nell’amore

Ho un’amica che non credeva nell’amore. Mi ricordo ancora quando me lo disse, qualche anno fa: eravamo nel parcheggio di un pub, a Lucca. In piedi, vicino a dei cassonetti, e tirava un pochino di vento. Era notte, una di quelle notti che sanno aspettare, che quasi ti incoraggiano a fare discorsi di questo tipo, come se fossero loro a farti parlare di vita, e di amore, e di noi.
Mi disse che non credeva nell’amore e io le volevo dire che non sapevo nemmeno cosa volesse dire, amore. Sono cresciuto con questo pallino secondo cui prima di parlare una cosa devo definirla, per essere sicuro che intendiamo tutti proprio la stessa cosa. E la sua definizione di amore era: quella agitazione sensazione sentimento che ti prende e ti scuote al cento per cento e ti fa essere felice al cento per cento e ti fa sentire che vivi qualcosa di perfetto, e perfetto al cento per cento. 
Io le dissi che ci credevo nell’amore, almeno così come intendeva lei, più o meno. Anche se non ero mai stato preso e scosso da nessuno al cento per cento, e non ero mai stato felice al cento per cento e non avevo mai creduto di possedere qualcosa di perfetto, o almeno non perfetto al cento per cento. Neanche al venti per cento, forse.
Fu un dialogo molto coinvolgente. Quando ci tieni tanto a una persona, cerchi di convincerla che esistono le cose che lei sogna e desidera e per le quali ha rinunciato, e cerchi di convincerla anche se tu stesso non hai prove. Ma cerchi comunque di appigliarti a ogni minimo ragionamento, a ogni esempio, anche stupido, dalla letteratura e dal cinema. 
Adesso la mia amica ci crede, nell’amore. L’ha trovato, il suo cento per cento. Non me l’ha mai detto, ma so che pensa che quella notte avevo ragione. E io? Io non lo so quanto è il cento per cento. Non so quantificare niente – e dire che invece dovrei saperlo fare, lavoro tutto il giorno con i numeri. Io non ho mai provato niente di così, l’amore, la felicità, la perfezione, qualsiasi definizione vogliate attribuir loro. Eppure ci credo.
‘cause it never began for us 
It’ll never end for us 
‘cause it never began for us 
It’ll never end for us 

Yellow

Non ci rendiamo conto abbastanza di quanto il presente sia importante. E questo è molto buffo, perché abbiamo sempre sulle labbra le citazioni Jim Morrison o di Oscar Wilde o di Baudelaire, che siamo pronti a condividere su facebook per mostrare al mondo che siamo fighi e viviamo alla giornata e cogliamo l’attimo. Ma la verità è che nessuno di noi è davvero capace di vivere alla giornata, e mi viene il dubbio che nemmeno Jim Morrison o Oscar Wilde o Baudelaire ne fossero davvero capaci. Invece di cogliere l’attimo ci infarciamo il cervello di seghe mentali e viviamo di quelle. Non di attimi, ma di seghe.
C’era una canzone, ieri, alla radio. Yellow dei Coldplay è una di quelle canzoni che mi piace ascoltare quando sono senza pensieri. Mentre guido, di notte, e fantastico cose dolci. E negli ultimi mesi ho avuto tante occasioni di ascoltarla, ma non l’ho mai fatto. Ero troppo occupato ad avere pensieri, per essere senza pensieri. 
Mi sono stranamente sentito in colpa per non essermi goduto il presente. Adesso ascoltare Yellow non ha più senso. Non è la stessa cosa, perché il mio umore non è lo stesso. Poi ho realizzato che questo strano rimorso che stava nascendo in me era un’altra paranoia. Mi faccio le paranoie anche per il fatto che ho le paranoie: probabilmente dovrei essere ricoverato. 
Sapete una cosa? Io Yellow me la ascolto, ORA, anche se non mi ci dice. E la dedico a me stesso, che sarà anche paranoico e nevrotico e patetico e un sacco di altre cose che finiscono in -ico, ma se la merita, questa dedica.
Look at the stars
Look how they shine for you
And everything you do
Yeah they were all yellow

Ops

On air: Britney Spears, Oops!…I did it again

“Il suo esercizio non è sbagliato. È peggio che sbagliato”

“Vede, ci sono esercizi che sono sbagliati in una maniera più o meno grave. Questo è un malato terminale. Invece il suo è proprio deceduto”

“Se all’esame mi dice una cosa così la butto fuori senza sentire altro”

“Ma cosa significa?! Ha fatto una frase che non vuol dire nulla, lo dica in italiano”

“No, no, no. Non c’entra niente, è tutto sbagliato”

Ops.

17.5.2012

( un grazie speciale a mia sorella Elisa che con tanta pazienza 
ha prodotto questo scatto e un altro grazie speciale a Laura 
che è una maga della grafica nonché la creatrice del risultato )

Non c’è da farla tanto complicata. 
Natura, malattie, Dio, …

La questione è molto più semplice.

E cioè: 
ma se a me, o a lui, o a lei piacciono 
i ragazzi o le ragazze o entrambi,
 e non veniamo a rompere le palle a te,
 a te… cosa cambia?

È solo un finale

Questo è un post che potrebbe parlare di cose tremendamente patetiche e personali. Se sai già che non ti piacerà, puoi benissimo evitare di stare qua e cliccare su chiudi. Ti garantisco che non mi offenderò, te lo giuro sulle extension di Gwen Stefani. Faccio questa premessa perché vorrei evitare di leggere commenti anonimi, come successe qualche mese fa, in cui mi si diceva che ero un mostro e non dovevo scrivere cose serie. Se uno scrive, scrive di ciò che vuole. Se io scrivo, scrivo di ciò che voglio e so benissimo perché lo scrivo e quanto scrivo di quello che penso.
Bene. Vorrei raccontarvi due storie.
La prima storia riguarda un ragazzo che stava male. Questo ragazzo, che – per garantirne la privacy – chiameremo Ventisei, non aveva poi tanti motivi per stare male: è circondato di amici fantastici che gli vogliono bene, ha una famiglia molto presente e una sorella ganza (seppur scema), i suoi risultati lavorativi non sono malaccio e anche i suoi impegni e hobby gli danno tanti bei risultati. Effettivamente, c’era un’unico ostacolo al completo star bene di Ventisei. Cristina D’Avena chiamerebbe questo ostacolo “Piccoli problemi di cuore” e si metterebbe a cantarlo con la sua vocina ingenua e infantile, beandosi del fatto che il mondo è ignaro della sua dedizione all’eroina.
La seconda storia, invece, riguarda me. Toh, pensa. Alcuni di voi forse si ricorderanno di Tredici settimane di felicità. Per fare un riassunto, tempo fa iniziai a scrivere un quadernino. Col proposito che ogni giorno avrei trovato da scrivere una cosa bella che mi era accaduta, e avrei fatto questo per novantuno giorni. Ora, c’è da dire che io sono una persona geneticamente realista e malinconica. Prima che possiate pensare le peggiori critiche, vorrei specificare che io ho accettato questa negatività insita in me, e non la considero affatto un difetto. Vedo le cose in una maniera diversa rispetto a come le vedono le persone positive e ottimiste, e non è peggio né meglio: è semplicemente diverso.
Ma torniamo alla storia di Ventisei. Anche lui si sentiva diverso rispetto agli altri. Diverso perché, abituato a cogliere le occasioni della vita per crescere, anche le cose che lo facevano soffrire erano per lui un qualcosa su cui lavorare. Cosa che gli sembrava non facesse nessun altro. Ventisei era estremamente convinto che sì, aveva bisogno di una piccola dose di fortuna, ma che fosse inutile starsene con le mani in mano aspettando che la vita gli proponesse le occasioni già confezionate. E quindi si dava da fare, cercando per prima cosa di stare bene con sé stesso. Perché – Ventisei se lo ripeteva da tempo – è quando stai bene con te stesso che stai davvero bene.

Ho scritto che sono una persona tendenzialmente malinconica. Pur avendo accettato questo mio essere, devo ammettere che mi ha procurato non poche difficoltà nel compilare il quadernino. Per una persona abituata a notare quell’unica nuvola grigia nel cielo sereno, scrivere una cosa bella ogni giorno non è semplice, ve lo garantisco. E all’inizio ero veramente in difficoltà. Mi sono ritrovato a scrivere sul quaderno cose come: “lo yogurt all’ananas, ehm, fantastico“. O anche: “i boxer dell’H&M non sono ancora scoloriti, evviva“. Mi faccio quasi pena. Tuttavia, a poco a poco ho iniziato a scorgere anche un po’ di cielo. Apprezzavo le piccole cose, ero felice per i successi dei miei amici, ero sereno. Ero… pronto.

Ventisei adesso sta di nuovo male. Accetta a fatica la parola F I N E, e non trova le forze di aprire una nuova pagina e cominciare a scrivere I N I Z I O, un po’ perché non ci sono parole con cui iniziare, e un po’ perché il capitolo precedente era davvero meraviglioso. Lo so, questa metafora del libro della vita e delle pagine e di tutto il resto è un po’ inflazionata e sarebbe il caso di darci un taglio, ma non me ne venivano altre. Mica mi pagano per scrivere sul blog. Resta il fatto che Ventisei è scoraggiato. Un nuovo capitolo, un altro ancora? Si chiede chi glielo faccia fare. Si chiede il motivo, visto che prima o poi finirà, di nuovo, e lui starà male. Di nuovo.

È per questo che scrivo questo post. Per dire delle cose a Ventisei. Per dirgli che deve stare tranquillo, che può prendersi tutto il tempo che vuole prima di ricominciare. Che non c’è nessuna fretta. Che sì, serve un po’ di fortuna, checché ti dicano i tuoi amici, ma prima o poi la ruota gira. Che ancora una volta devi essere forte, e essere coraggioso, perché credimi, Ventisei: in pochi sono coraggiosi quanto te. Ed è lo stesso se ora ti viene solo da piangere, perché piangere non è un reato, e non è nemmeno una cosa di cui vergognarsi. In un laboratorio di pc dell’università ci sono io, e sto piangendo per te. Io credo in te, Ventisei. E ti dico, ti grido, che puoi contare su di me. Non sei solo: ci sono io. Questo finale non è il vero finale. È solo UN finale. Perché se vado a riprendere quel quadernino, all’ultima pagina trovo scritto:

Giorno 91

Sto bene.

Ed è questo il finale che avrà anche il tuo libro. Lo so, che sarà così. Basta solo che non ti dimentichi che non sei solo. Ci sono io, ci sarò sempre. Attenderemo quel finale insieme.

Un’altra volta.

L’emicrania domenicale

On air: Kelly Clarkson, What doesn’t kill you 
Buongiorno a tutti. Sappiate che ho il mal di testa, e pertanto non mi curerò molto della punteggiatura di questo post. Sì, perché questo mal di testa mi colpisce proprio nella zona del cervello dedicata ai segni di interpunzione. E vi garantisco che è quella dei segni di interpunzione è una zona molto grande del mio cervello. Credo che tolga spazio a funzioni motorie. Il che spiegherebbe come mai sono bravo con le virgole ma non so toccarmi la punta del naso con la lingua.
Quant’è odioso il mal di testa? 
( oh, guardate, il punto interrogativo sono riuscito a metterlo! 
Uh, anche quello esclamativo! 
Uh, un’altra volta. Dio, sono un mostro ) 
Ma non parlo di un mal di testa in generale. Parlo di quello della domenica. L’emicrania domenicale. All’inizio pensavo che fosse una cosa dovuta al fatto che il sabato sera sono solito bere un goccetto (termine tattico per non far preoccupare papà, nel caso dovesse leggere il blog). Poi però ho notato che mi sente la testa anche dopo una sera in cui non tocco alcool  – perché sì, è capitato, giuro. Quindi forse è il mio corpo che capisce che è arrivata la domenica e mi fa stare male automaticamente. La domenica c’ho l’emicrania impostata a valore di default.
Eppure stamani è diverso. Mi sono svegliato col cervello che pulsava, e la più minima presenza luminosa mi faceva soffrire (la mattina la luce mi fa star male. Sono un po’ come un vampiro, ma senza tutto quel noiosissimo marketing). Guardandomi allo specchio mi sono visto squisiti foruncoli totalmente nuovi, e un volto inquietante che è la rappresentazione della morte.
Però c’era anche un’altra sensazione. Quella della nera del ghetto che schiocca le dita, per intenderci, o della Aguilera che canta Fighter. Quella di chi si sente di avere le contropalle, quella di chi si è preso le sue rivincite, quella di chi si sente di essere cresciuto, almeno un pochino. 
Sono ROCK, e volevo dichiararlo al mondo scrivendolo sul blog. Prima però ho affondato i denti in un muffin e ho bevuto il caffè. Per farmi passare il mal di testa, sapete. È passato.

Tredici settimane di felicità

On air: Regina Spektor, Better
(sì, lo so che l’ho già pubblicata, 
ma ci sta bene come soundtrack del post!)

All’inizio della scorsa primavera ho passato un periodo a tormentarmi per il mio essere così tremendamente negativo e paranoico. Sì, lo so che è buffo: mi faccio le paranoie anche perché ho le paranoie. Una mia amica di Latina (chissà se mi legge ancora!) mi disse che è vero che la crisi, la fame nel mondo, le guerre e i disastri ambientali non sembrano niente quando abbiamo un problema noi, ma almeno possiamo usarli per… riclassificare il nostro problema, per vederlo sotto una nuova ottica, per re-inquadrarlo. Okay, lei si espresse sicuramente in un modo più morbido e poetico, ma io non ricordo le parole esatte.
Avevo questo pensiero in testa: riuscirò mai ad essere contento di quel che ho, invece di essere infelice per quello che non ho? 
Il 9 Marzo 2011 era un mercoledì, e io comprai un quaderno. Aveva la copertina completamente nera, su cui io scrissi sopra il titolo:
Tredici settimane di felicità
Sulla prima pagina, le regole:

1) Ogni giorno scrivi qualcosa di bello. Che ti ha fatto fare una risata, o un sorriso, o che in qualche modo – anche minimo – ti ha fatto stare bene.
2) Non sentirti ridicolo. È solo un esperimento!
3) Sforzati: qualcosa di bello ti accade ogni giorno, per forza.
4) Dopo tredici settimane, al giorno 91, fermati. E rileggi ciò che hai scritto.

Okay, lo so. È una cosa che fa molto psicanalisi alternativa, ma vi faccio notare che non ho scelto di spremermi un melograno sul petto cantando delle mie paure più recondite. Ho scritto un quadernino! Okay, okay, mi merito tutte le prese in giro. Fatto sta che ogni giorno scrivevo una frase, o anche solo una parola, riferita a qualcosa che mi aveva strappato un momento di spensieratezza. (Piccolo inciso: il fatto che una delle parole più quotate sia aperitivo dovrebbe in qualche modo costringermi a farmi delle domande?)
Ho finito il quaderno?
No. Il giorno 71 (“birra con Tiz”) è l’ultimo appunto che ho preso. Poi è successo qualcosa che è stato troppo doloroso da sopportare, e anche quando mi sono ripreso non ho più continuato a scriverci. Quel quaderno è rimasto chiuso nel mio comodino fino ad oggi, quando l’ho preso e l’ho sfogliato, tremando.
Ho deciso che lo voglio ricominciare. Non so se servirà davvero a qualcosa: credo di aver capito che a volte si è semplicemente nati in un certo modo, o si sta passando un certo periodo, e che pertanto non si può essere troppo felici. Ma… scrivere non costa niente. E chi sa che non mi aiuti davvero ad apprezzare quello che ho.
Che siano le prove della coreografia del ballo del pesce (giorno 2), che sia Giuli che mi porta a casa il gelato (giorno 37), che siano due bottiglie di vino e tre amiche a Ferrara (giorno 8), che siano i primi piccoli successi col progetto in F# (giorno 23), che sia qualcuno che mi si siede accanto in biblioteca (giorno 49), che siano le chiacchiere con Ciuffo (giorno 22), o che sia Quel bacio (giorno 45).

Le confessioni di un pesce rosso

Avete presente la sensazione di non saper come iniziare a fare una cosa che tuttavia sapete di dover fare? Ecco, mi sento così. Non so cosa scrivere, ma so di dover scrivere qualcosa. La verità è che la scrittura per me è qualcosa di particolare: è complicato da spiegare, ma è come se i miei pensieri diventassero reali solo dopo averli scritti. O meglio: è come se solo scrivendo io riuscissi ad ammettere le cose a me stesso.
Per questo motivo sento di dover scrivere qualcosa: perché, in realtà, io devo ammettere qualcosa. Qualcosa che finché non scrivo non riuscirò a credere.
Ma da dove comincio?
Nella mia vita ho avuto quattro pesci rossi. Due erano miei, e si chiamavano Lillo e Lilla. E due erano della mia classe, in quinta superiore, ma effettivamente erano miei perché gli davo sempre io da mangiare; e a ricreazione chi puliva il loro acquario? Io. Ed è legge, che se pulisci l’acquario sei anche automaticamente il padrone dei pesci rossi. 
Mi hanno sempre fatto pena, come animali domestici, i pesci rossi. No, non per il fatto che non ti comunicano sensazioni, e non per il fatto che non ti danno affetto, e nemmeno per il fatto che è evidente che sono più o meno degli animali da arredamento. Mi hanno sempre fatto pena perché sono soli, racchiusi in una boccia di vetro che filtra loro solo alcune distorte immagini dell’esterno.
Mi sento un po’ un pesce rosso. Solo, e con tanta vita al di fuori dell’acquario, vita che tuttavia non riesco a mettere bene a fuoco. Mi avvicino al vetro e scorgo un po’ di cose. Due occhi verdi. Una focaccia. Una bottiglia di vodka. Farfalle viola. Un paio di scarpe bucate, le mie preferite, e una t-shirt nera della Coop. Un piumone che bastava appoggiare. Un accappatoio tra la maniglia e il muro. Una catena. (Rubata.) Una serratura rumorosa. E ancora gli occhi verdi.
Ho passato gli ultimi mesi a costruirmi la vita basandomi sulla persona che abita questa stanza. E ho commesso un errore atroce. E naturalmente non perché questa persona non mi meritasse, o non fosse quella adatta a me, o non fosse una bella persona. Cazzate. L’errore è stato un altro, e cioè quello di dimenticarmi del mio acquario. Quello in cui vivo solo io, quello in cui mi nutro e nuoto. Dimenticarmi che prima della stanza c’è il mio acquario. Che prima degli altri ci sono io.
Non sono stati giorni semplici. Non saranno giorni semplici. Anche in questo istante preferirei qualsiasi cosa piuttosto che essere nella mia mente. Delle volte mi sembra di esplodere. Altre volte mi manca il respiro. È come se mi avessero aspirato il cuore e non ci avessero messo neppure un po’ di segatura per sopperire al vuoto. Perché è così che mi sento: vuoto.
E per dieci giorni mi sono sentito così: vuoto e spento e totalmente privo di un motivo. Sapevo che doveva funzionare così. Mi sono preso il mio tempo per stare male, perché tanto sapevo che avrei dovuto stare male. Ed effettivamente sono stato male, e non potevo farci niente, assolutamente niente.
Ma poco fa ho ripensato a un messaggio che ho mandato ad una mia amica il mese scorso. Si era appena lasciata dal ragazzo e io le ho scritto che doveva costringersi ad essere forte. Sì, perché lo so che a volte non si riesce ad essere forti, ma bisogna esserlo, sennò non lo si diventerà mai.
E allora adesso prendo quel messaggio e me lo spedisco. Ale, devi essere forte. Costringiti ad essere forte. Trova un motivo dentro di te, non nelle altre cose, non negli altri. Rispetta i tuoi amici, rispetta chi ti vuole bene, ma soprattutto rispetta te stesso. Devi volerti bene. E no, cazzo, non è una frase detta così per dire. È la base da cui partire: è assolutamente necessario che tu ti voglia bene.
Non è stato facile scriverlo. E non solo perché tutto questo potrà sembrare ridicolo, paraculo, vittimistico e bisognoso di attenzioni, ma anche perché adesso mi tocca impegnarmi e reagire.
Comincia un periodo in cui dovrò imparare a pensare a ME. Alla MIA felicità. Alla MIA indipendenza. Al mio acquario, che invece di acqua è ripieno di Negroni. Scriverlo non è stato facile, ma metterlo in pratica lo sarà ancora meno. E non sarà divertente, e non sono nemmeno così sicuro che dopo sarò una persona migliore, e non ci sono certezze su dove sia il punto di arrivo, se ci sia, quanto ci si metta per raggiungerlo.
Ma di una cosa sono convinto: prima di amare gli altri, devo amare me stesso. Fanculo tutti.