Le confessioni di un pesce rosso

Avete presente la sensazione di non saper come iniziare a fare una cosa che tuttavia sapete di dover fare? Ecco, mi sento così. Non so cosa scrivere, ma so di dover scrivere qualcosa. La verità è che la scrittura per me è qualcosa di particolare: è complicato da spiegare, ma è come se i miei pensieri diventassero reali solo dopo averli scritti. O meglio: è come se solo scrivendo io riuscissi ad ammettere le cose a me stesso.
Per questo motivo sento di dover scrivere qualcosa: perché, in realtà, io devo ammettere qualcosa. Qualcosa che finché non scrivo non riuscirò a credere.
Ma da dove comincio?
Nella mia vita ho avuto quattro pesci rossi. Due erano miei, e si chiamavano Lillo e Lilla. E due erano della mia classe, in quinta superiore, ma effettivamente erano miei perché gli davo sempre io da mangiare; e a ricreazione chi puliva il loro acquario? Io. Ed è legge, che se pulisci l’acquario sei anche automaticamente il padrone dei pesci rossi. 
Mi hanno sempre fatto pena, come animali domestici, i pesci rossi. No, non per il fatto che non ti comunicano sensazioni, e non per il fatto che non ti danno affetto, e nemmeno per il fatto che è evidente che sono più o meno degli animali da arredamento. Mi hanno sempre fatto pena perché sono soli, racchiusi in una boccia di vetro che filtra loro solo alcune distorte immagini dell’esterno.
Mi sento un po’ un pesce rosso. Solo, e con tanta vita al di fuori dell’acquario, vita che tuttavia non riesco a mettere bene a fuoco. Mi avvicino al vetro e scorgo un po’ di cose. Due occhi verdi. Una focaccia. Una bottiglia di vodka. Farfalle viola. Un paio di scarpe bucate, le mie preferite, e una t-shirt nera della Coop. Un piumone che bastava appoggiare. Un accappatoio tra la maniglia e il muro. Una catena. (Rubata.) Una serratura rumorosa. E ancora gli occhi verdi.
Ho passato gli ultimi mesi a costruirmi la vita basandomi sulla persona che abita questa stanza. E ho commesso un errore atroce. E naturalmente non perché questa persona non mi meritasse, o non fosse quella adatta a me, o non fosse una bella persona. Cazzate. L’errore è stato un altro, e cioè quello di dimenticarmi del mio acquario. Quello in cui vivo solo io, quello in cui mi nutro e nuoto. Dimenticarmi che prima della stanza c’è il mio acquario. Che prima degli altri ci sono io.
Non sono stati giorni semplici. Non saranno giorni semplici. Anche in questo istante preferirei qualsiasi cosa piuttosto che essere nella mia mente. Delle volte mi sembra di esplodere. Altre volte mi manca il respiro. È come se mi avessero aspirato il cuore e non ci avessero messo neppure un po’ di segatura per sopperire al vuoto. Perché è così che mi sento: vuoto.
E per dieci giorni mi sono sentito così: vuoto e spento e totalmente privo di un motivo. Sapevo che doveva funzionare così. Mi sono preso il mio tempo per stare male, perché tanto sapevo che avrei dovuto stare male. Ed effettivamente sono stato male, e non potevo farci niente, assolutamente niente.
Ma poco fa ho ripensato a un messaggio che ho mandato ad una mia amica il mese scorso. Si era appena lasciata dal ragazzo e io le ho scritto che doveva costringersi ad essere forte. Sì, perché lo so che a volte non si riesce ad essere forti, ma bisogna esserlo, sennò non lo si diventerà mai.
E allora adesso prendo quel messaggio e me lo spedisco. Ale, devi essere forte. Costringiti ad essere forte. Trova un motivo dentro di te, non nelle altre cose, non negli altri. Rispetta i tuoi amici, rispetta chi ti vuole bene, ma soprattutto rispetta te stesso. Devi volerti bene. E no, cazzo, non è una frase detta così per dire. È la base da cui partire: è assolutamente necessario che tu ti voglia bene.
Non è stato facile scriverlo. E non solo perché tutto questo potrà sembrare ridicolo, paraculo, vittimistico e bisognoso di attenzioni, ma anche perché adesso mi tocca impegnarmi e reagire.
Comincia un periodo in cui dovrò imparare a pensare a ME. Alla MIA felicità. Alla MIA indipendenza. Al mio acquario, che invece di acqua è ripieno di Negroni. Scriverlo non è stato facile, ma metterlo in pratica lo sarà ancora meno. E non sarà divertente, e non sono nemmeno così sicuro che dopo sarò una persona migliore, e non ci sono certezze su dove sia il punto di arrivo, se ci sia, quanto ci si metta per raggiungerlo.
Ma di una cosa sono convinto: prima di amare gli altri, devo amare me stesso. Fanculo tutti.
3 commenti
  1. Romano
    Romano dice:

    Bé, in effetti è vero. Si dovrebbe pensare prima di tutto a se stessi e poi agli altri e se davvero lo vuoi lo puoi fare. Come ben sai, però, ci devi 'lavorare' sopra. Un caro saluto

    Rispondi

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