La mia vita, più o meno.

Don’t stop beLondon • Day 6

Ciuffo è effettivamente un ragazzino che si applica. Poiché la canzone del quinto giorno era stata da me approvata come “sveglia ok”, per il sesto ne ha cercata una con caratteristiche simili. Che poi non ci voleva molto a capire che anche Moonriver, tratta da Colazione da Tiffany, sarebbe andata benissimo. Questo sarebbe stato l’ultimo giorno di visita della città, perché il giorno seguente sarebbe stato completamente preso dal viaggio di ritorno. Essendo quindi l’ultima possibilità che avevamo di farci una doccia, ci laviamo ammodino e facciamo le valigie che poi possiamo fortunatamente lasciare nell’albergo (portarsele in giro tutto il giorno sarebbe stato problematico).
Io con la mia inconfondibile
espressione idiota.
Salutiamo la nostra camera (ripeto che il sostantivo “camera” è probabilmente troppo intenso come definizione di uno sgabuzzino arancione vagamente attrezzato per il riposo) e andiamo a farci la nostra prima – e ultima – full english breakfast. Un piatto contenente un tale ammontare di cibo che se dovessi mangiarlo tutti i giorni lo rimetterei tutto alla prima ora. Per carità, per rimettere una colazione qualsiasi bastano e avanzano le risate di Rossella Brescia su RDS. Comunque, erano già le dieci passate, per cui la colazione è stata una specie di pranzo anticipato. Un brunch, tanto per dire una cosa con cui atteggiarsi a fighi.
Ciuffo che fa finta che la full english
breakfast sia troppa per lui. Mh, sì.
Prima tappa prevista per la giornata: Harrods. Che chiamo affettuosamente “i supermercati della regina”, in quanto il “magazzino” è pieno di prodotti firmati a prezzo anche più elevato del solito. Nessuno di buon senso comprerebbe qualcosa lì, specialmente nel reparto alimentare. Sì, perché da Harrods c’è anche la macelleria, per dire. Ciuffo sbotta “Ma chi è che viene a comprare la carne da Harrods?!”. Mentre osservo il macellaio che mi sta davanti – un signore inglese col vestitino pulito e col cappello elegante – penso a Siro, quello del mio paese, che è sempre tutto imbrattato di sangue e parla come un maiale. Nel senso che grugnisce.
Puoi volar puoi volar
puoi volar puoi volar
puoi volaaaar ♪♫♪
Il secondo obiettivo erano i giardini di Kensington. Anche per questa tappa avevo fracassato le palle a Ciuffo da giorni, tanto che lui aveva accettato quasi per sfinimento. Che ci posso fare io se sono fissato con il visitare i luoghi dei libri che ho letto?! Comunque, diciamo che il vero obiettivo era la statua di Peter Pan, che si trova appunto nei giardini di Kensington. Ora, c’è da dire che questi sono confinanti con Hyde Park, e si fondono in un unico parco immensissimo. Non c’è da meravigliarsi, dunque, se abbiamo sbagliato per tre volte la fermata della metropolitana. Finalmente siamo riusciti a trovare la statua tanto anelata, e a farci la fotina di ricordo. 
Istantanea del discorso di
Ciuffo. Meno male che le
foto non hanno audio.
Torniamo a Marble Arch per l’ennesima volta, ma questa è per raggiungere lo Speaker Corner. Ora faccio il maestrino e vi spiego che c’è una legge del che permette a chiunque di fare qualsiasi discorso in questo punto preciso di Hyde Park. Figata spaziale, insomma. Un richiamo troppo grosso per noi, eterni fabbricatori di immonde stronzate. Così io e Ciuffo, a turno, ci mettiamo lì e facciamo il nostro discorsino.
Shopping finale in Oxford e Regent Street. Vediamo gli ultimi milioni di cose che ci rimangono da vedere, tra cui la chiesa di St James e un enorme negozio di giocattoli chiamato Hamley’s. Cena da McDonald e giratina finale nel centro. Niente musical: non c’è tempo, non ci sono soldi (da Harrods mi avevano cacciato con una spiacevole pedata nel di dietro quando la mia postepay, ormai spremuta fino all’ultimo centesimo, si rifiutava di dare altro denaro).
Andiamo a prendere le valigie all’albergo e ci dirigiamo verso Victoria Station, dove avremmo preso il pullman per l’aeroporto. Ma in ogni romanzo c’è sempre un ostacolo che allontana i protagonisti dal lieto fine: nel nostro, l’ostacolo è rappresentato dal fatto che non si trovava la fermata del pullman. Victoria Station è enorme! Io stavo iniziando a preoccuparmi. Anzi, diciamo pure che ero alquanto agitato. Guardavo Ciuffo, che aveva la stessa espressione di uno con la labirintite, e nel suo sguardo vuoto capivo che eravamo definitivamente perduti.

Don’t stop beLondon • Day 5

Here, there and everywhere dei Beatles è probabilmente il modo migliore per svegliarsi a Londra. In realtà credo sia il modo migliore di svegliarsi un po’ dappertutto. Anzi, mi sa che è il modo migliore di fare qualsiasi cosa, dappertutto. Ciuffo, quella pasta di ragazzo, l’ha scelta come quarta sveglia cosicché io ho potuto – finalmente, grr – alzarmi con i nervi distesi.

La mattinata avrebbe dovuto svolgersi nel nord-est londinese. E infatti abbiamo preso la metro e ci siamo fermati alla stazione di King’s Cross, dove non c’è assolutamente niente di interessante. Se non… un muro. Tuttavia, quel muro è il muro che separa il mondo dei babbani da quello magico: l’ingresso al binario 9 e tre quarti, da dove si prende l’Espresso per Hogwarts! Okay, sì, è roba da fan psicopatici, ma io *sono* un fan psicopatico – per quanto non sia ancora iscritto a Pottermore, ma rimedierò quando il sito sarà pubblico. E quindi io e Ciuffo siamo andati al binario 9 vero, dove non abbiamo trovato niente. Cercando su Wikipedia ho capito poi il perché. Fortunatamente Ciuffo ha visto le indicazioni che portavano alla ricostruzione di quel muro. Ho aspettato si facessero la loro foto alcune donne di una certa età – è incredibile come Harry Potter unisca (leggasi: lobotomizzi) grandi e piccini – e poi ho potuto farla anche io. Notare la mia espressione felice (leggasi: idiota).
Ciuffo che prova la mia
fantastica zuppa di carote.
Vicino a King’s Cross c’è un altro posto che tutti mi avevano descritto come tappa fondamentale: Camden Town. Si tratta di un paesino pieno di bancarelle e negozietti che fanno finta di venderti oggetti pregiati a pochissimo prezzo, mentre invece ti vendono cenci di dubbia qualità per un sacco di soldi. È un po’ come un gigante mercatino dell’usato, dove però tu credi che la roba che compri sia nuova e fantastica. Nonostante tutto questo, Camden mi è piaciuta e sono anche riuscito a comprare dei jeans. Che non volevo. O meglio, ero tutto contento dell’acquisto fatto, se non che dieci minuti dopo ho trovato un paio di jeans del colore che volevo, di una taglia che mi calzava meglio e che costavano dieci sterline di meno. Sì, smadonni un po’. In inglese, ma smadonni. Camden è stata anche l’occasione di provare una favolosa (cioè inquietante) zuppa (cioè brodaglia insipida) di carote (cioè arancione, nel senso di completamente e solo arancione). Pare che a Camden non esista la carne. Sono tutti vegetariani o vegani. Ciuffo ha preso una straordinaria british-insalata con dello straordinario british-formaggio greco. Inutile dire che la zuppa non è stata finita e che la straordinaria british-insalata è finita in uno straordinario british-bidone.
Avevamo appuntamento con Alan per le tre e mezzo, quindi ci sembrava vagamente curioso trovarci sempre a Camden alle tre e venti. Corriamo alla metro, e raggiungiamo Marble Arch dove troviamo un Alan che spera in una ragione attendibile per i ventisei minuti di ritardo. Come essere riusciti a fotografare l’infarto della regina, o riprendere la resurrezione di Amy Winehouse, ad esempio. Alan doveva andare da Primark perché aveva bisogno di nuove tendine per la sua finestra. Non so perché sentisse l’urgenza di cambiare tendine, quando non ha i soldi per comprarsi le patatine se pranza al McDonald. Forse le tendine le usa anche come coprimaterasso, non potendo permettersene uno. 
Ritratto del consumismo.
Alan se ne va, e quella sarà l’ultima volta che riusciremo a vedere lui e la sua inseparabile felpa da disadattato. (Spero che Alan sarà ubriaco quando leggerà questo post, dato che lo sto offendendo da dieci righe almeno) Noi proseguiamo il nostro viaggio per Oxford Street alla ricerca di Topshop, negozio in cui dobbiamo comprare dei pantaloni per conto della mia amica Giuli. Ora, quando scrivo “pantaloni”, non intendo “pantaloni”, bensì quello che si ottiene decifrando questo sms:
Sono i moto leigh skinny e ne ho visti su internet 
nel viola ma lì lo chiama con un colore che inizia 
con la b. Se vedi che sono brutti prendili come ti 
piacciono. Basta che siano moto skinny. Taglia 
38 italiana 🙂
[ Giuli, 9 ott ]
[ nda: L’autorizzazione per la pubblicazione del messaggio 
sovra riportato mi è stata data dalla fatica che ho fatto per 
trovare i jeans, oggetto di tale messaggio ]
Bene. Considerando che: 1) non sapevo il colore, ma solo che iniziava con la lettera b, 2) non sapevo a cosa corrisponde la 38 italiana e 3) non sapevo neanche pronunciare la parola “leigh”, ci rivolgiamo a un simpatico commesso che ci indirizza a un altro commesso (Topshop è un negozio talmente grande che ogni commesso ha un reparto da sapere). Egli mi ricorda un po’ una scimmia, anche se una scimmia molto omosessuale, e pertanto gli affibbio il soprannome di Abu. Abu mi dà più o meno i pantaloni che Giuli aveva richiesto, anche se poi scoprirò che ha sbagliato la taglia. O meglio: mi ha dato la taglia corrispondente a quella che voleva, ma comunque a Giuli stanno troppo grandi – sapete, la mia amica è una specie di stecco parlante e con gusto nel vestire.
Ale, your color mood is:
Electric Green
Ciuffo, your color mood is:
Megamix
Finiamo nel Disney Store, in una manciata di altri negozi e poi le vie dello shopping chiudono, anche stasera. Sono le sei, è prestissimo e nonostante la stanchezza ci dirigiamo alla cattedrale di St Paul. O meglio: a prendere un caffè, seduti in un bar davanti la cattedrale di St Paul. Torniamo all’hotel, ceniamo e ci prepariamo per la notte londinese #4. Che parte con la visita allo “stupendo” M&M’s world! Entriamo nel più grande MM’s store del mondo (che in realtà è solo frutto di una mente malvagia che ha l’intento di rovinare la magia di Piccadilly Circus) e già sentiamo il caratteristico, plasticoso odore di colorante. Colorante ovunque. Quel posto è un immenso magazzino di colorante travestito da cioccolatino! Ad ogni modo, al primo piano c’è una macchina che ti analizza e ti dice qual è il colore del tuo “animo”. Ora, sembra buffo a dirsi, ma secondo me ci ha azzeccato. Casualità, per forza, ma i colori che ha assegnato a me e a Ciuffo corrispondono ai colori che io ci darei.
Facciamo la nostra seratina londinese, per poi implorare il letto. La mattina avremmo dovuto svegliarci presto, perché il check out dell’albergo sarebbe stato alle 10, e le valigie avevano mostrato disappunto nel chiudersi e nel pesare poco. Ho sempre trovato antipatici i limiti di peso e di dimensioni di RyanAir.

Don’t stop beLondon • Day 4

Quale modo curioso avrà scelto Ciuffo per farmi innervosire di primo mattino? Ma ovviamente You and I, di Lady Gaga! “Ma a te piace Lady Gaga!” Certo, Ciuffo, per svegliarmi ho giusto voglia di venire stordito dal riff di un sintetizzatore e dalle pressioni delle chitarre elettriche. Lasciamo perdere, e passiamo a dare una cronaca del quarto giorno.
La prima tappa è il museo delle cere di Madame Tussaud. Mi avevano detto tutti che: 1) costa tanto, 2) c’è una coda enorme per entrare e 3) è commerciale. E, in effetti, confermo che 1) costa troppo, 2) c’è una fila che ti illude di essere corta ma è lunghissima e peraltro scorre lenta e 3) è tremendamente commerciale. Ma che fai, vai a Londra e non visiti il museo delle cere? Impensabile, così abbiamo speso fior fiori di sterline e abbiamo fatto un’oretta e più di coda. La ricompensa è stata data da tutte le foto idiote che di cui vado a inserire di seguito una “accurata” selezione:
Ciuffo che cerca di rubare il bicchier a Sean.
Sì, io e Audrey siamo spesso insieme!

Nel tunnel della paura non facevi
più finta di avere paura, eh? >.<

Amiche per la pelle!

Looooooser!
<3

“Ale, ma chi è ‘sto qui?”
“mmmboh, chiediamogli se sa dov’è l’uscita”

Oh, Kylie.
“Ridammi questo affare, l’ho vinto io, puttana!”

Ce-ce-ce-ce-ce-ce-ce-cera face ♪♫

A Ciuffo piacciono le “culone inchiavabili”
Nota rilevante: in fondo al museo c’è un percorsino di paura dove attori veri sono pagati (spero non molto) per fare venire infarti plurimi alle persone. Allora, io e Ciuffo – noti per il nostro coraggio da leoni – abbiamo deciso di affrontare il suddetto percorsino. Succede che Ciuffo, che prima di entrare aveva fatto tanto lo stronzino cercando di spaventarmi ulteriormente (“Eh, io non ho dormito per tre giorni l’altra volta che ci sono stato…”), si aggrappa al mio braccio e urla come farebbe Sarah Michelle Gellar nel vedere un ragno. Cosicché io esco da lì non solo terrorizzato a morte, ma anche sordo.
Che ogni Mercedes sulla faccia della
Terra venga distrutta immantinente!

Al 221b di Baker Street c’è la casa di Sherlock Holmes. Foto di rito, e poi poco più in là c’è il Beatles Store dove otteniamo informazioni su come raggiungere Abbey Road, dove effettivamente ci rechiamo dopo aver pranzato in Regent’s Park. Abbey Road non è propriamente una strada. Cioè, sì, è una strada, ma la parte importante della strada è semplicemente un attraversamento pedonale che è diventato un vero e proprio simbolo per la musica, e per questo motivo tutti vogliono attraversare quelle strisce e farsi una foto su quelle strisce. Il problema è che Abbey Road è una vera strada, e le macchine ci sono, e temo che i londinesi si siano stufati di tutta quella gente che attraversa (infatti più volte hanno manifestato la loro contrarietà alla cosa strombazzando animatamente).

Siccome avevamo letto sul giornale che danno gratis in metro che la Domenica avrebbe essere brutto tempo, avevamo progettato, in quella giornata, di farci i musei. Poi la giornata si è rivelata serena e tranquillissima dal punto di vista metereologico, confermando il fatto che le previsioni del tempo non ci azzeccano neppure a Londra. Ad ogni modo, rielaborare l’itinerario della giornata sarebbe costato troppo in termini di spremitura di meningi, quindi siamo andati alla National Gallery come da piano originale. Viste le opere più importanti – e commentate con una vaga vena ironica – siamo usciti e abbiamo trovato dei gessetti con cui scrivere su Trafalgar Square quale è il nostro sogno. Metto qui a sinistra la foto con le scritte di tutti, e tra di esse ci sono anche la mia e quella di Ciuffo, così vi “divertite” a leggerle.
Linea rossa della metro, scendi a marble arch
che si trova tra lancaster e bond street oxford
circus, esci e ti trovi primark davanti.Reparto
uomo secondo piano
[ Fede, 6 ottobre ]
Questo per dirvi quanto sono utili e precise le amiche, insomma. Ci vediamo Marble Arch e cinque minuti di Primark prima che chiudano i negozi (a Londra chiudono alle sei. Se lo facessero anche in Italia, sarebbe un bel problema per me che vado a comprare i regali un minuto prima che inizi il compleanno). Mentre tutti i negozi di Oxford Street chiudono, noi entriamo in uno Starbucks dove possiamo finalmente riposare e mangiarci uno di quei biscottini adorabili pieni di cioccolato e chissà quanti altri cancerogeni ingredienti.
Torniamo all’ostello per prepararci alla domenica sera londinese che è… spenta. Probabilmente interpretano alla lettera il fatto che sia il giorno di riposo, e tutto chiude presto. Meglio, perché così possiamo andare a letto ad un’ora decente, in vista della lunga giornata che ci avrebbe atteso l’indomani. Prima di dormire, prego Ciuffo di farmi scegliere la sveglia, giusto per non incazzarmi come ho fatto per le tre mattine precedenti. Lui non vuole sentire storie: sceglie lui, promettendomi che stavolta mi sarebbe piaciuta. Chiudo gli occhi, nel panico. Ma facevo male ad avere paura: la mattina seguente, ad aspettarmi, c’era la più bella sveglia di sempre.

Don’t stop beLondon • Day 3

Per cominciare la giornata veramente molto irritato, mi ha svegliato Elle me dit di Mika. Ora, la musica dance appena svegli, per quanto glam che sia, non può non farmi innervosire. Una volta ebbi il coraggio di mettere come sveglia Dragostea din tei, e rimasi incazzato per due settimane. Ciuffo non ha pensato a questa cosa nello scegliere la sveglia, col risultato che mi ci sono volute due brioscine per addolcirmi un po’.
Portobello Road
Il terzo giorno era un Sabato. E, di Sabato, Londra va al mercato di Notting Hill. E quando dico “Londra” intendo proprio tutta Londra. Le metropolitane vomitavano fiumi di gente, tanto che abbiamo anche fatto la fila per uscire dalla stazione. Quando siamo usciti abbiamo trovato il popolo che scorreva tra le bancarelle di Portobello Road. È un mercato affascinante, e ci si trova davvero di tutto. Soprattutto cucchiai, che però non ci interessavano, dato che a Londra è impossibile trovare uno yogurt o una minestra (in realtà di zuppe ne abbiamo trovate, mio malgrado, ma ne parlerò più avanti). Invece ci siamo dati da fare per comprare vari oggettini acchiappa-turisti. Non ho avuto cuore di prendere una fiaschetta con scritto I love London, che sarebbe stata tanto utile quanto kitch.
Ciuffo con la giacca british.
Finalmente posso scrivere su questo blog qualche avventura illegale. Ebbene sì, perché in un negozietto di Portobello, Ciuffo aveva finalmente trovato la giacca british per la quale scassava le palle da due giorni. Costava una cosa come 80 sterline, quindi non ha voluto comprarla. E non avrebbe nemmeno potuto indossarla, perché c’era un tizio che controllava la stanza molto attentamente. Ma i migliori videogiochi d’azione insegnano che la guardia cambia sempre locazione almeno una volta ogni tanto (tutta la mia infanzia a guardare mio papà giocare a Tomb Raider sono serviti a qualcosa, finalmente), così abbiamo aspettato pazientemente che il tale si allontanasse, e Ciuffo ha potuto farsi una foto con la famigerata giacca. Poi abbiamo scoperto che il negozio aveva le telecamere. Nella piramide di Lara Croft non c’erano telecamere, pertanto io non avevo previsto tale eventualità.
Visto che ci trovavamo a Notting Hill, e visto che Notting Hill è anche una delle mie commedie preferite (peccato solo per la voce di Julia Roberts nel doppiaggio italiano che è una cosa assolutamente indecente), mi sono dato da fare per cercare la famosa libreria in cui Hugh Grant vendeva libri di viaggi. Ma non la trovo. Sì, effettivamente avrei potuto non scrivere questo particolare. Se mi metto a scrivere anche le cose che non ho visto, faccio prima a redigere una guida di Londra.
Ciuffo che tenta di presentarsi a
uno scoiattolo.
Portobello Road non ha fine. No, sul serio: è infinita. A un certo punto ci arrendiamo. Infattibile tornare alla tube station da cui eravamo arrivati, troppo troppo lontana. Ne cerchiamo un’altra, e fortunatamente la troviamo, e ci dirigiamo ad Hyde Park. Il primo approccio che ho avuto con gli scoiattoli è stato molto simile al primo approccio che ho avuto guardando Nightmare: non mi aspettavo che dei simil-topastri ti venissero così vicino e a quella velocità, quindi mi sono un attimo spaventato quando ne ho visto uno che mi saltava contro da un albero (il mio sussulto, peraltro, ha fatto sghignazzare degli inglesi antipatici seduti su una panchina lì vicino, inglesi che spero andranno all’inferno dove, per la legge del contrappasso, saranno condannati a subire frustate da uno scoiattolo gigante vestito di latex nero).
Ciuffo che tenta di entrare a Buck…
Ma che sto dicendo!? Ciuffo che,
come suo solito, fa l’idiota.
Pranziamo nel giardino delle rose, in compagnia di famelici piccioni. Neanche una mezz’ora di riposo, e dobbiamo ripartire, alla volta di Buckingam Palace, a cui arriviamo passando per St James Park e the Mall. Okay, ammetto che sì, Buckingam sia oggettivamente un bel posto, ma a me non ha entusiasmato molto. Alla fine è un palazzo, un palazzo molto grande ma pur sempre un palazzo, con la differenza che, quando la regina è dentro, la bandiera reale sventola sul tetto. Voglio proporre a mia madre di mettere una bandiera sul tetto, e di toglierla quando va a fare la spesa: l’effetto dovrebbe essere il solito, magari con nonno e papà vestiti da cretini a fare il cambio della guardia.
Ancora metro, per quello che sarà l’ultimo, interminabile giro della giornata; il giro che ci avrebbe definitivamente distrutto le gambe. Arriviamo alla Torre di Londra, in cui non entriamo (“Avete fatto bene a non entrare, Ale: ci sono solo due anellini” cit. Giuli), e poi proseguiamo per il Tower Bridge, che ho trovato un po’… infantile, con quei colori pastellosi che i bambini dell’asilo usano per disegnare il cielo. Ad ogni modo, attraversiamo il ponte e ci troviamo dall’altra parte di Londra. Piccola parentesi sul Tamigi: è sporco come il lavandino di Sophia Loren dopo che si è tolta dalla faccia i due o tre chili di fondotinta. Abbiamo visto sulla riva che c’era pure un flacone di detersivo, che poi è esattamente ciò che utilizza Sophia Loren per togliersi il fondotinta.
Io, davanti al Globe!
Stasera si esce col ballo del pesce ♪♫
Arrivati sull’altra sponda, vediamo dall’esterno un sacco di cose che non ricordo, ma ne cerchiamo solo una. C’era vento, era freddo, era tardi, avevamo fame ed eravamo stanchissimi, ma ormai dovevo vederlo. Era una delle cose per cui avevo insistito, tanto che, nei giorni precedenti, Ciuffo aveva pensato a diversi modi per uccidermi. Il Globe. Il teatro dove recitò la compagnia di Shakespeare. Beh, non il vero Globe, ovviamente, che fu distrutto da un incendio, ma quello ricostruito di recente. 
Due sciabigotti a Soho.
Trovare la metro è stata un’impresa ardua, ma dopo chilometri e chilometri siamo riusciti a tornare all’hotel. Ceniamo al KFC il cui pollo (o quel che è: dal sapore mica si riconosce che è pollo. Potrebbe essere un gatto, o un topo, o un platano, chi lo sa) mi rimane sullo stomaco, e poi facciamo un “giretto” a Soho, che si conferma un luogo magico e allegro. Poiché siamo due dementi non leggiamo il volantino, e anche se l’avessimo letto non avremmo capito che Foam Party si traduce in Schiuma Party. Così ci ritroviamo all’Heaven circondati da gente che sembrava appena uscita da una doccia fatta con i saponi della Lush. Fortuna che il posto è davvero enorme, e riusciamo a trovare una saletta asciutta – o quasi – in cui davano musica anni 90, di modo che abbiamo potuto rimanere a ballare i Backstreet Boys e compagnia, che fanno sempre piacere. Ad ogni modo, quella sera il vero “paradiso” è stato raggiungere il letto.

Don’t stop beLondon • Day 2

Vengo svegliato da Viola Valentino che canta Comprami. Esprimo il mio disappunto a Ciuffo che ha scelto la sveglia e la sceglierà anche per i giorni successivi, e lui si giustifica dicendo che era per non sentire la nostalgia dell’Italia. Effettivamente penso che una canzone su una persona che si svende per “una parola, un gesto, una poesia” sia il modo migliore per ricordarsi degli usi e costumi della terra natia.
La prima cosa che vediamo di Londra è Tesco, il supermercato dove compriamo l’acqua e i panini. Tanto per evitare qualsiasi interazione con umani, paghiamo a quelle pratiche macchinette automatiche (quelle che ci sono anche alla Coop, per dire) che ti ringraziano anche.
Secondo Ciuffo, questa è una foto artistica.
Non so se è vero, ma io ho delle mani molto belle!
Prima di raggiungere la stazione della metropolitana facciamo sosta a Starbucks per la colazione. Ritengo di essere estremamente fortunato a vivere in un Paese dove Starbucks non esiste, perché se ci fosse anche da noi ci andrei spessissimo, e pagare ogni volta due euro per un caffè fatto male non gioverebbe al mio portafogli.
Dopo aver venduto il sangue per comprare l’abbonamento della metropolitana, la prendiamo e raggiungiamo la stazione di Piccadilly Circus. Ciuffo aveva insistito di fare quella come prima tappa, e nonostante non credessi che fosse davvero così necessario, gli ho dato retta. E ho fatto bene. Mentre salivo le scale che mi avrebbero portato all’esterno della stazione, sentivo già il vento; lo stesso vento che mi ha spinto a voltarmi una volta salito l’ultimo gradino. Ed è stato in quel momento che mi sono innamorato. In quel momento capii una cosa semplice: “Londra è una città bellissima“.
Un giretto per lì, e poi di nuovo alla metro. Ci vediamo il Big Ben, the House of Parliament e arriviamo all’abbazia di Westminster, che il mio amico Tiziano mi aveva fortemente consigliato di visitare (ho detto questa cosa solo per poter scrivere “il mio amico Tiziano” che secondo me suona molto bene, potrebbe essere il titolo di un libro. No, Tiz, scordatelo: non basta questo per scriverti una biografia. Mi dovrai anche pagare, nel caso). Westminster è effettivamente molto interessante, e l’audioguida ci fa ragionare su tutta la successione di re e regine che cerchiamo di ricostruire – fallendo miseramente. Quando arriviamo all’angolo dei poeti inizio ad agitarmi: cioè cioè cioè, qui dentro sono sepolti tutti i più grandi, tutti, tutti! Mancava solo Shakespeare, che però avrebbe dovuto essere lì, quindi vale.
Ehi alan! Noi siamo a westminster, è favolosa! 
Ma abbiamo quasi finito 🙂 quando vuoi fatti 
sentire che ti dico dove siamo! Londra è stupenda, 
avevi ragione!
[ 7 ottobre, 13:08 ]
Stavo x scriverti 🙂 ce la fate a venire a South 
Kensington? E solo due fermate distante 🙂 se 
si, dimmi a che ora! 🙂 
[ 13:20 ]
Ok, veniamo adesso che tanto dobbiamo pranzare
🙂 ti va? Siamo alla metro di south kensington tra
un quarto d’ora circa 
[ 13:24 ]
No, non ho riportato lo scambio di sms per far vedere che dico cose come “è favolosa”. E nemmeno che Alan abbrevia “per” con la x e non sa mettere la e maiuscola accentata. È solo che pensavo che sarebbe stata un’introduzione carina per spiegare chi è Alan – spiegazione la cui utilità è discutibile, peraltro. Alan è un ragazzo che studiava informatica con me. Ahhh, bei tempi quando seguivamo Architettura e Calcolo Numerico insieme! E quel dannato progetto di laboratorio di Sistemi Operativi. Ma ora quegli esami sono andati, per fortuna, e tra l’altro tutto questo esula dall’argomento del post, quindi non capisco perché ne stia parlando. Comunque, la differenza tra me ed Alan è che io sono ancora a Pisa, mentre lui è all’Imperial College di Londra. Stronzo.
Arriviamo al luogo dell’appuntamento e un’immaginaria Raffaella Carrà urla che dopo quattro mesi, Alan, è quiiiiii tadadadadadaaaaa tadadadadadaaaaa firiririiiiii ririiiii riri riri riri… (questa è la musichetta di Carramba che sorpresa, se ci fate caso fa proprio così).
Questo è Alan, e questa foto testimonia
che ha davvero mangiato quella roba.
La metto qui, di modo che possa essere
d’aiuto alla scientifica per capire come
è morto.
Alan ci porta a pranzo nel tipico, squallidissimo posto che tutti pensano ci debba essere nella periferia di Londra. Lui ci assicura che ci ha già pranzato e che non ha preso nessuna malattia. Non ancora almeno. Questo ci basta per tranquillizzarci, così entriamo in questo localino cinese/giapponese/orientalese che con 5 euro ci riempie una scatola di noodles e pollo zuccherato. Sì, esatto, una cosa che se ammetti di aver mangiato a qualsiasi dietologo, ti spara al cuore e si assicura che tu non possa raccontarlo in giro. Spero che non ci siano dietologi tra i miei lettori. Alan ci porta a vedere Exhibition Road e poi il suo fantomatico Imperial College. Rassicuro i suoi famigliari e amici che sì, lo frequenta davvero quel posto, perché ha salutato diverse persone che erano lì. Anche se ovviamente potrebbe fare il bidello all’Imperial College, e non lo studente. 
Alan ha uno sguardo malefico quando ci avvisa che ci avrebbe portato a Soho. E infatti arriviamo nel quartiere più affascinante di Londra, dove Mr Hyde passeggiava nelle notti dell’Ottocento. Chissà se Mr Hyde è anche entrato nel sexy shop Kiss kiss. Noi sì, perché fondamentalmente siamo dei deficienti, ma è stato antropologicamente interessante osservare un vecchietto bavoso che fissava l’interno del negozio.
Il tirocinio al contrario, la cosa peggiore
che mi poteva capitare. Dopo la gonorrea,
ovviamente.
Breve giretto a Chinatown, e poi via a Trafalgar Square. Ci posizioniamo in un punto a prova di vento per realizzare il vero motivo per cui sono venuto a Londra. La Sibolla. Ebbene, la Sibolla è un mazzo di tarocchi che ha sempre predetto ciò che poi si sarebbe avverato, da quando mi sono lasciato a quando ha annunciato che mi sarebbe successo qualcosa di imbarazzante il giorno prima che tutti mi insultassero per essermi tagliato i baffi in maniera indecorosa. Effettivamente, forse la Sibolla porta sfiga. Comunque, Alan è il detentore delle preziose carte, e se le è portate in Inghilterra con sé. Anche stavolta la Sibolla mi ha predetto cose a cui avrei preferito una morte lenta per macerazione del tessuto epiteliale.
Arriva la pioggia, ma almeno Alan se ne torna a casa, nella sua zona 3 (leggasi: culonia). Noi invece ci facciamo Carnaby e Oxford Street, e probabilmente qualche altra cosa che non ricordo non documentata da fotografie. Finalmente arriva il tempo di tornare in albergo, dove riusciamo a farci una doccia rigenerante (Ciuffo non mette ammodino le tendine e bagna tutto il pavimento, nda). E la sera… beh, la sera la documenterò domani, quando forse mi saranno venuti in mente dei modi per evitare di scrivere le cose imbarazzanti. No, non ci riuscirò mai.

Don’t stop beLondon • Day 1

Non ero esattamente “intrepido” sul pullman che mi portava all’aeroporto di Pisa. Era come quando qualcuno deve dare una festa e, il giorno prima del party, il suo invitato prediletto si rompe una gamba. La mattina della partenza era successa una cosa che non mi permetteva di godere appieno dell’imminente viaggio. 
(Bene, d’ora in poi giuro che cercherò di usare un lessico meno formale. Forse eliminare termini come “appieno” e “imminente” potrebbe essere un buon inizio)
E insomma c’era Ciuffo che sul pullman cercava di convincermi che questa vacanza sarebbe stata un ottimo modo per distrarsi: non mi ricordo le parole precise ma aveva fatto una metafora molto acuta, talmente acuta che mi aveva meravigliato quest’uscita allegorica, dato che lui, quando deve usare le figure retoriche, si limita ad alcuni doppi sensi molto buffi che talvolta coinvolgono accette e manghi.
Ah, per chi non lo sapesse Ciuffo è un mio amico che è stato da me così battezzato, in quanto possessore di un’abile acconciatura che svirgola in un ciuffetto di capelli a sinistra. Adesso il soprannome si è diffuso universalmente, tanto che i suoi amici, suo zio e perfino Licia Colò lo chiamano così.
Arriviamo all’aeroporto e ci dirigiamo alle bilance per controllare di non aver ecceduto con i nostri trentacinque chilogrammi disponibili. Visto che io ho le fisse per queste cose burocratiche, e visto che Ciuffo è composto dal 75% di acqua e dal restante 25% di ansia, siamo entrambi parecchio sollevati nello scoprire che avremmo avuto ancora a disposizione parecchi chili.
Check in online, controlli di rito, e siamo nella zona dei gate. Mentre facciamo il biglietto del pullman che una volta in Inghilterra ci avrebbe portato in città, vediamo che altre due tipe avevano l’albergo nel nostro quartiere. Avranno avuto trentacinque barra quarant’anni, ma erano sprint e vivaci. Sembravano un po’ due Samanta di Sex and the city, senza considerare che una di loro era pure bionda. Le abbiamo ridenominate mamme. Le mamme accettano di dividere la spesa del taxi con noi una volta arrivati a Victoria Station, e noi ci dirigiamo al gate belli soddisfatti della nostra audacia (sì, l’audacia spesso è favorita dalla tirchiaggine).
Il viaggio è andato tutto sommato bene, se tralasciamo il fatto che nel sedile dietro di me c’era una piccola ed orribile bambina che al decollo ha pensato bene di ripassare la numerazione decimale (quando è arrivata a “fiftyfive” Ciuffo ha iniziato a cercare oggetti con cui uccidersi ma ce li avevano tutti sequestrati ai controlli). Tra l’altro, tale bambina (che ricordiamo essere piccola ed orribile) ha pianto per tutta l’ultima fase, ed a quel punto anche la signorina seduta alla mia destra esprimeva l’ardente desiderio di farla finita, lì e subito.
Arriviamo all’aeroporto di Stansted. Prendiamo il pullman prenotato e ci accorgiamo che le mamme non ce l’avevano fatta a prendere il nostro. Poco male, pagheremo di più il taxi (alla fine sono venute otto sterline a testa, un prezzo più che accettabile considerando che la metro era chiusa). Sul pullman ci sono delle meridionali sovraeccitate che hanno definito “bellissimo” qualsiasi oggetto vedessero al di fuori del finestrino. Okay, il London Eye di notte può essere molto scenografico, ma ripetere il termine “bellissimo” mezza dozzina di volte mi fa credere che siate lobotomizzate, ragazze!
Ed eccoci finalmente a Victoria Station. Dobbiamo arrivare a Earl’s Court. No metro, no bus, l’unico modo è il taxi. Il paurosissimo e tipicissimo taxi nero. E qui si vede Ciuffo che si fionda sul secondo taxi spodestando altri turisti che avevano avuto la sua stessa idea. Chiede di andare a Earl’s Court ma il tassista non capisce, così è costretto a fargli vedere l’indirizzo direttamente sulla mappa. Una volta sul taxi un cartello ci informa che il tassista è sordo.
Albergo, finalmente. Inizia anche a piovere. Saliamo, e raggiungiamo la camera 211. Forse “camera” è una parola un po’ troppo ambiziosa per definire un loculo di sette metri quadrati contenente un letto, un bagno con doccia e due appendini. Ma siamo troppo stanchi per accorgerci di dove stavamo per dormire.
Avevo passato una giornata infernale, tra crisi, ansie, saluti, raccomandazioni, corse, mezzi di trasporto. Ero dentro una camera di un accesissimo arancione, con la scritta EasyHotel.com sulla parete. E, per giunta, accanto a me c’era Ciuffo. 
Ero a Londra, ma non lo sapevo ancora.
La lista delle cose da visitare, stampata qualche
giorno prima della partenza. Durante la vacanza
abbiamo aggiunto vari appunti e adesso è così.

Skinny genes

Se non è periodo di saldi, ci sono due soli modi per sfogare le proprie preoccupazioni: bere, e creare scoiattoli di pongo. Considerando che non posseggo del pongo, è stata una vera fortuna che il 2 Luglio siano iniziati i saldi. E, in effetti, la mattina stessa del 2 Luglio io ero per le vie di Lucca con una carta di credito che ad ogni tocco sussurrava “Usami, usami, passami tutta”.
Cercavo un paio di pantaloni scuri, preferibilmente marroni, così sono andato nel luogo che considero la mia seconda casa: la Sisley. Il commesso mi saluta, ridendo sotto i baffi: praticamente vede più me che sua madre. Una volta “fu costretto” a darmi il suo numero di telefono, perché gli avevo chiesto se mi metteva da parte un paio di pantaloni perfetti che volevo ma che in quel momento non potevo pagare.
E così mi ritrovo a girottolare per il negozio, finché li vedo. Illuminati da una luce mistica, mi si presentano in tutto il loro splendore intanto che una musica sacra fa da sottofondo alla scena. Ignorando i vari Alleluja che i folletti del mio cervello si mettono ad intonare, mi precipito a controllarli. 
Sconto del 30%, neri, cuciture marroni, taglia 29, e terribilmente skinny.
Non ho mai avuto dei jeans skinny, che per chi non lo sapesse sarebbero dei pantaloni molto molto aderenti. Non li ho mai avuti forse perché non mi piacevano molto addosso agli altri, e inoltre sono solito associarli a un certo tipo di essere umano che non è il mio ideale di persona. Però… l’abito non fa il monaco, e bla bla bla, e incedo verso il camerino. 
Ho indossato la sacra veste, e ho notato con meraviglia di essere effettivamente molto magro. Poi chiamo la signorina (evito il commesso di prima perché davvero mi conosce ormai troppo bene: una volta gli ho chiesto di tradurmi in francese una poesia!) che mi dice – sotto mio ordine – che mi stanno davvero benissimo soprattutto sul culo. Autostima ++. Per sicurezza chiamo anche mia sorella, che nel frattempo si era imboscata nel reparto donna, che mi dice – sotto mio ordine – che mi stanno davvero benissimo soprattutto sulle gambe. Autostima ++.
Non ero ancora del tutto convinto che fossero i pantaloni adatti a me. Tuttavia mi accingo a pagarli, visti lo sconto e il desiderio di avere qualcosa di diverso nel guardaroba.
Arrivo a casa con l’intento di mostrare ai miei cosa i loro soldi mi hanno permesso di avere. Indosso i jeans e torno in cucina a farmi ammirare.
Sbiancano tutti.
Mia mamma comincia a ripetere il termine “stecchino” a intervalli irregolari, intanto che scuote la testa fissando la sua insalatina triste. Mio padre, dopo circa dieci minuti di gelido silenzio, afferma che sembro un bimbo del Biafra.
Il commento del mio amico Ciuffo è stato Uuuh! con tanto di sospetta sgranata d’occhi, la quale gli è costata una sequenza di domande del tipo: 1) Perché hai detto Uhhh? 2) Mi stanno davvero bene? 3) Lo giuri? 4) Su cosa? 5) Non vedi mica le rotule?
La mia amica Giuli, studentessa di Medicina, ha colto l’occasione del giudizio sui miei nuovi jeans per farmi un riassunto delle sue lezioni di anatomia: “Vedi Ale, qui c’è la patella”…
Autostima –.
Devo dare una conclusione a questo post, e lo faccio volentieri snocciolando cosa ho pensato alla fine di tutto. E ho pensato due cose.
La prima è che, al di là di cosa pensano tutti gli altri, rimango comunque uno strafigo. (***WARNING: allarme sfasamento del livello di autostima, pericoloso avvicinamento al delirio di onnipotenza***)
E la seconda è che, mal che vada, potrei incontrare qualcuno come Eliza Doolittle, a cui non piacciono gli skinny, perciò sostiene che…

I really don’t like your skinny jeans 
So take them off for me 
Show me what you’ve got underneath 
So we can do this properly
Occhiolino 😉

Una commedia lunga un anno

Era l’anno scorso, ed era Maggio. Quasi un anno fa, in pratica. Era un periodo un po’ particolare della mia vita ed era una Gianfranco.
[ Qui c’è bisogno di una parentesi, altrimenti temo che non si capisca bene la frase “era una Gianfranco”. Premetto che dopo questa parentesi potrei passare per psicopatico, ma tutto sommato non credo che ciò influisca molto sull’opinione che taluni hanno di me. Non che la cosa mi piaccia (solo i finti alternativi sono contenti nell’essere appellati come pazzi, e infatti si autodefiniscono così, lo scrivono su facebook, comprano magliette con scritto MAD GIRL o CRAZY BOY, e trovo la cosa molto irritante, ma sto divagando, riportiamoci all’argomento di questo post).
Dicevo: Gianfranco. È il nome che io e altre due persone a me care – che chiamerò con nomi di fantasia, per esempio Tiziano e Federica – diamo a quei momenti in cui ci incontriamo davanti a una birra o un Sexonthebeach e (s)parliamo di:
– “Tiz e il sesso debole mica tanto debole”
– “Fede e il sesso forte mica tanto forte”
– “Ale e le sue vicende nell’altro mondo” ]
Bene. Ora che sapete cos’è Gianfranco (anche internazionalizzato con JeanFrankie, e abbrevviato con JF), posso continuare. Ad uno di questi incontri, viene fuori che sarebbe bello mettere in scena Lunatika.

[ Sì, Lunatika. Con la kappa, sì. E come potete immaginare, adesso urge un’altra parentesi in cui spiego cosa diamine è Lunatika. Innanzitutto Lunatika è una commedia, ma soprattutto Lunatika è una commedia che è stata scritta durante un corso di scrittura drammaturgica che io ho frequentato insieme ai suddetti Tiz e Fede ed altre persone. Quando mi chiedono cosa sia Lunatika, rispondo che è una trasposizione in chiave moderna del Sogno di una notte di mezza estate di Shakespeare. 

“Trasposizione in chiave moderna” è una frase molto figa che sta a significare che la storia è pari pari quella del Sogno, ma 1) è ambientata in una discoteca, 2) i personaggi dicono parolacce. ]

Adesso sapete anche cos’è Lunatika. Ritorniamo alla sera di Maggio 2010.
Sarebbe bello mettere in scena Lunatika
Sì ci stavo pensando
Guardate che è un testo molto forte
Io ho anche pensato anche a chi potrebbe fare i personaggi
Certo XXXX sarebbe perfetto per Personaggio Y
E XXXX allora?
È praticamente uguale a Personaggio Z!
Ale, perché non fai la regia con me?
Ta da da daaaan. Io avevo scoperto il mondo del teatro da… una cosa come sette mesi. In questa sede è troppo noioso stare a spiegare come mai ho accettato, ma fondamentalmente è perché Lunatika era un progetto iniziato al corso di scrittura e mi sarebbe piaciuto completarlo con la vera e propria messa in scena.
Durante l’estate io e Tiziano iniziamo a pensare a come potrebbe venire, reclutiamo attori, ipotizziamo possibili musiche di sottofondo. Alla fine buttiamo giù un piano di regia (così l’ha chiamato, il regista esperto).
Fare il regista mi ha lasciato un sacco di sensazioni interessanti. E non è solo il fatto di potersi far bello nel dire che EHI, io sono il regista. È qualcosa a cui non ero abituato. Spesso hai la convinzione di sapere come dovrebbe essere fatta una certa cosa, e spesso quella cosa sarebbe davvero perfetta se la si facesse nel modo che dici tu. Ma spesso ti manca il coraggio, o la possibilità, o la forza di prenderti la responsabilità di essere il capo. 
Ed ecco cosa ho fatto in questi mesi: il capo. Nononononono! Non è affatto bello fare il capo. Hai mille responsabilità, devi motivare ogni tua scelta anche se le tue scelte si basano solo su sensazioni, devi lottare per dimostrare che la tua idea è giusta, devi tenere unito il gruppo, devi organizzare il lavoro di tutti e lavorare per chi non lavora, devi purtroppo incazzarti per sollecitare chi non ti rispetta o non rispetta gli altri, devi usare il tuo tempo libero per portare avanti il lavoro (prove, scenografie, musiche, costumi, luci, locandina, promozione, …). 
È stressante. Eseguire è molto, molto più facile che pensare. Tiz mi aveva avvisato, ovviamente. E io ho pensato di lasciare la regia una cosa come… 10 volte. Al mese. E non sto esagerando.
Solo ora, a 18 giorni dalla prima, vedo che non ho lavorato per nulla. Questo spettacolo ha una forma, e questo spettacolo ha la forma che IO gli ho voluto dare. Non chi ha eseguito, ma chi ha pensato. Credo che Lunatika sia per me e Tiz una specie di figlio. Nel senso che, come si cresce un figlio, anche questo spettacolo è il risultato della nostra “educazione”. 
[ Faccio una parentesi su Tiz. Sì, lo so che faccio sempre parentesi, ma una in più che cosa cambia? Beh, Tiziano è stato fondamentale. Ovvio, per l’esperienza che ha nel mondo del teatro. Ma soprattutto per il sostegno morale, che tradotto in linguaggio carino significa che è un mio amico. In quasi un anno di preparazione, praticamente ho visto più lui che i miei genitori. Senza contare che abbiamo avuto quasi sempre le stesse idee sulla commedia: i nostri cervelli sembravano in simbiosi, e qualche volta ho pensato che Terry e Maggie ci fanno una pippa – se escludiamo la questione del teletrasporto, ma ci stiamo lavorando. ]
E adesso? E adesso mancano diciotto giorni dalla prima.
Fede, per sms, qualche settimana fa:
“Manca un mese al 9.”
“Già.”
“Emozionato?”
“Sì. Perché anche il terrore è un’emozione.”
Ma alla fine credo in questo spettacolo. È roba mia, è una creazione modellata per come ho voluto io. E sinceramente – e peccando terribilmente di presunzione – non credo che potrà non piacermi. E ancora più sinceramente, e peccando ancora di più di presunzione, non credo che potrà non piacervi.
Lunatika è una storia. E ci sono tanti colori, tante musiche. Personaggi in cui ritrovarsi, alcuni da odiare e altri da amare. Fin qui tutto piuttosto banale, eppure io sono convinto di due cose. Uno, che non vi dimenticherete di Lunatika. E due, che Lunatika non è ciò che vi aspettate.

Zoofilia

“Topino”.

Quasi quasi vomito.
Almeno non lo scrivere sul pullman!