Annuntio Vobis Gaudium Magnum: HABEMUS UBUNTU

Le macchine ce l’hanno con me. Si stanno ribellando. Stavo pensando che forse avrei dovuto prenderlo come un segno del destino, ma non credo al destino, per cui logicamente non posso nemmeno credere che il destino mi possa mandare dei segni. Dopo questa perla di stoltezza passo a raccontarvi dei recenti avvenimenti.

Dopo mesi e mesi di tentennamenti, giovedì pomeriggio mi decido ad installare Ubuntu [Breve parentesi: Ubuntu è un sistema operativo, tipo Windows]. Metto il disco, e non funziona. Riavvio il computer, e non funziona. Aggeggio nel BIOS, e non funziona. Perdo tutta – forse non avete letto bene, lo ripeto: TUTTA – la giornata a cercare di installare ‘sto cacchio di Ubuntu e non mi riesce.

E stanotte torno a casa, e trovo sul tavolo un messaggio di mio papà “Ubuntu funziona, il nome utente è ale e la password è quella che avevi detto te“. Mi vengono quasi le lacrime, che si trasformano in un pianto copioso quando accendo il computer e vedo che effettivamente mi chiede se voglio avviare Windows oppure Ubuntu.

Adesso è doveroso ringraziare tutti, quindi:
– Grazie ad Annalisa e Nicola che mi hanno fornito il disco di installazione. Poi alla fine ne ho dovuto utilizzare un altro che ho masterizzato da me, ma grazie lo stesso
– Grazie a Simona per avermi fatto parlare con Enzo
– Grazie, quindi, ad Enzo, che molto gentilmente ha cercato di spiegare ad uno sconosciuto completamente ignorante in materia che cosa fosse una macchina virtuale
– Grazie a Laura per aver preso gli appunti di Fisica mentre io cercavo mi deprimevo sul programmino di Algoritmica
– Grazie a Vezio per aver tentato di consolarmi: “Eh, i computer fanno così, tu segui tutte le istruzioni e non funzionano per qualche strano motivo”
– Grazie a Filippo, che ormai è il mio tecnico di fiducia, anche se stavolta non ha potuto fare niente contro la forza di ribellione delle macchine nei miei confronti
– Grazie a Giuli, per… boh, così!
– Grazie a Valentina, per avermi caldamente consigliato di cambiare computer. E’ sempre una soluzione…
– E infine, Grazie al Santo Padre, che non è il Papa, ma è il papà – mio papà – perché in casa lo chiamiamo per scherzo il Mago del Web, ma delle volte qualcosa ci capisce davvero (e poi ha avuto culo).

Ed ora c’è la seconda mission: impostare la rete internet!
Ragazziiiiii, mi date una mano?

Colpo di culo

Sostantivo, maschile.

(1) Cercare parcheggio a Tirrenia, e trovarlo.

(2) Cercare parcheggio a Tirrenia, e trovarlo non a pagamento.

(3) Cercare parcheggio a Tirrenia, trovarlo non a pagamento e proprio davanti all’entrata della spiaggia dei tuoi amici.

Il dimentica-giorni

Dunque, la cosa sicura è che io non ho memoria. O meglio: ce l’ho, ma non mi funziona molto bene. Ricordo solo le cretinate più assurde, e ovviamente le cose tristi (ma quello è normale, quindi non è molto interessante). Per esempio, ricordo che in quinta elementare avevo usato il pennarello verde per depennare “pasta al pesto” dal menù della mensa. E ricordo che alle medie avevo trucidato un’intera gomma per tirarla addosso a Martina L, ma la prof di italiano mi scoprì e rovinò il piano diabolico che avevo architettato (parentesi: deve essere da quel momento che la maledizione della gomma mi colpì, e da allora fui condannato a disegnare cose senza senso sul quaderno, e a cancellarli subito dopo. Un vizio che è durato per tutti e cinque gli anni di liceo – mi chiamavano Cancellino, da tanto che usavo la gomma – e che mi porto ancora dietro. Finiamo ‘sta parentesi, va’…). Poi ricordo che alle superiori la prof mostrò a tutta la classe un mio schemetto di storia, che secondo me era orribile, ma che evidentemente a lei piaceva. Vi garantisco che era una cosa inguardabile; da tanto che avevo premuto col pennarello c’era anche venuto un buco veramente antiestetico. Il primo ricordo che ho è di me seduto sul mobiletto del telefono a chiedere a mia madre lo yogurt all’albicocca. La leggenda vuole che la prima parola che ho pronunciato sia stata “Cocca” che sta appunto per “Yogurt all’albicocca”, ma queste sono solo voci mai verificate. Da piccolo mangiavo un sacco. Ed ero anche bello paffuto, non come adesso, che se mi vedesse un egizio mi mummificherebbe.

Tutto questo patetico preambolo sarebbe dovuto servire per dire che ci sono ricordi che, sebbene siano cazzate incredibili, non vorrei eliminare. Oddio, dello schemetto di storia ne farei volentieri a meno. Però ci sono altre cose che invece mi piacerebbe dimenticare. Pensieri, eventi passati, giornate. Oggi, per esempio. Vorrei svegliarmi domani e non essere consapevole di quel che è accaduto oggi. Passare dallo ieri al domani. Solo per questa volta, sia chiaro. Conosco la storiella che ieri è passato, domani è un mistero, ma oggi è un dono, per questo si chiama presente. Sì, sì, lo so, evviva, non ci son più le mezze stagioni, mangiare frutta e verdura fa bene, il nuoto è lo sport più completo. Okay. Però no, sono un attimino nervosetto. Ci vorrebbe che qualcuno inventasse un oggetto per me. Il dimentica-giorni. L’ho pensato così: si indossa un casco (lo immaginerei rosso con disegnate delle saette gialle, ma se poi è di qualche altro colore va bene lo stesso), a cui sono collegati tutti dei cavetti blu (che anche se non sono blu è lo stesso, insomma…) che fanno capo a una macchinetta. Qui si imposta il giorno, poi si preme il tastone verde al centro (che anche se non è verde… oh, diamine, avete capito!). E ta-daaan! Giornata scomparsa. Oh, sì, farebbe al caso mio.

Il verso è tutto e può tutto

Il verso è tutto. Nella imitazione della Natura nessuno strumento d’arte è più vivo, agile, acuto, vario, moltiforme, plastico, obbediente, sensibile, fedele. Più compatto del marmo, più malleabile della cera, più sottile d’un fluido, più vibrante d’una corda, più luminoso d’una gemma, più fragrante d’un fiore, più tagliente d’una spada, più flessibile d’un virgulto, più carezzevole d’un murmure, più terribile d’un tuono, il verso è tutto e può tutto. Può rendere i minimi moti del sentimento e i minimi moti della sensazione; può definire l’indefinibile e dire l’ineffabile; può abbracciare l’illimitato e penetrare l’abisso; può avere dimensioni d’eternità; può rappresentare il sopraumano, il soprannaturale, l’oltramirabile; può inebriare come un vino, rapire come un’estasi; può nel tempo medesimo possedere il nostro intelletto, il nostro spirito, il nostro corpo; può, infine, raggiungere l’Assoluto.

[ Il Piacere – Gabriele D’Annunzio ]

In una stazione dall’aria tranquilla…

Guardate questo video.
…non vi fa sperare che sia tutto vero?

P.S. Non sono sparito. Anzi, mi scuso per l’assenza im-per-do-na-bi-le (sillabato fa più effetto). E prometto solennemen… No, non prometto niente. Ma nei prossimi giorni mi farò sentire.

Biglietto

Entro in casa, poso le chiavi della macchina, butto un’occhiata sul tavolo della cucina. Uh, un biglietto! Mi piacciono i biglietti. Mi sfilo la cartella di dosso lasciandola penzolare da una mano. Penzolare è un modo carino per dire che la lascio cadere per terra (era pienissima!). Finalmente prendo il biglietto in mano e inizio a leggere:

Per Elisa ed Alessandro:


Ecco. Già il fatto che abbia scritto per primo il nome di mia sorella non mi piace. Alessandro viene prima di Elisa, per ordine alfabetico, per età, e soprattutto per importanza! Non me la prendo più di tanto. Forse mamma ha messo per prima Elisa perché i rimproveri che farà nel biglietto sono prevalentemente per lei. Continuo a leggere.

So che non è necessario senz’altro, ma vi ricordo per sicurezza alcune cose:


Oh no, che palle. E’ sempre così prima che partano. L’occhio mi cade già sui grossissimi numeri dell’elenco che segue. Il corsivo di mia madre è enorme, e si riflette persino sulle cifre piene di ghirigori.

1) Quando accendete il gas poi siate sicuri di spengerlo bene.


Okay, mamma ci ha presi per emeriti imbecilli. Speriamo che quello che segue abbia una rilevanza più consistente…

2) Per lo meno 1 volta passate l’aspirapolvere (forse vi conviene quando ritorniamo!)


Faccio finta di non vedere quell’orripilante “1”, scritto in cifre anziché in lettere, una cosa che detesto da morire, e mi concentro sul significato. Oddio, ha anche voluto fare dell’ironia.

3) Vi lasciamo 50 euro se vi manca qualcosa e le tessere Esselunga e Coop (codice Esselunga 7***)


Qui non ha fatto errori carattere-simbolici, ma si è scordata una virgola che incasina tutta la struttura sintattica. Così sono costretto a rileggere il terzo punto un’altra volta. Ci ha lasciato le tessere Esselunga e Coop. Tutte e due. All’Esselunga non ci metto piede da due anni, mentre la Coop la uso come passaggio segreto per evitare il semaforo della Sarzanese. Mh, sarò sempre lì, sì.

4) Per Elisa: se devi andare in piscina prendi una borsa là in garage (lo zaino l’ho preso io)

5) Vi ho fatto un pacchetto di fragole: le altre fatele da voi. Lavatele [cancellatura, sotto si legge la parola “bene”] bene però e fatele altrimenti vanno a male.



Buone le fragole! Che mamma adorabile che ho! Mi dirigo verso il frigorifero, intenzionato ad aprirlo.

6) Papà ha comprato una colomba al cioccolato, se vi va potete mangiarla.


Dietro front, verso la dispensa. La apro, e un sacco di robina luccica davanti ai miei occhi. O forse sono i miei occhi a luccicare nel vedere tutta quella robina buona. Che significa “se vi va” !? Entro domenica la colomba è nel mio stomaco!

7) C’è della mozzarella, affettati, ecc. e un pezzo di prosciutto: se lo affettate da voi state attenti, altrimenti chiamate nonna.


D’accordo mamma, ci consideri dei poveri incapaci. Basta saperlo…

8) Per Ale: la moka è pronta. Basta metterla sul fuoco.


Mi giro verso l’angolo cottura, e vedo la moka. Ha l’aria piena, e sembra che dica c’ho dentro il latte. Che mamma deliziosa che ho!


9) Per Elisa:


Evvai questo è per Elisa e basta. Lo leggo lo stesso, per sicurezza.


9) Per Elisa: quando vai via dillo ai nonni (vale anche per Ale)


Acc, mi ha aggiunto dopo.


Credo di non aver dimenticato nulla.
Bacioni,
Mums.
Messaggiatemi!


E voi divertitevi. Meno male si è scordata della lavastoviglie.

Quattroscene

(1)


Michele sta guardando i suoi occhi riflessi nel finestrino. Pensa che non riesce a distinguerne il colore, nonostante sappia benissimo di possedere due iridi tinte d’un azzurro glaciale; due iridi che s’intonano alla perfezione col viso cereo, macchiato soltanto dalla scia rossa delle labbra. I cavi bianchi dell’ipod spuntano dai jeans e risalgono il petto del ragazzo fino a scomparire in una miriade di riccioli neri. La musica riesce a coprire il fracasso costante che il vecchio pullman produce nella sua corsa attraverso la notte.
Michele osserva i suoi occhi, poi li assottiglia, per cercare di vedere oltre il vetro. Niente da fare: l’illuminazione all’interno del pullman è troppo intensa, così come l’oscurità che domina all’esterno. Michele sospira, lasciando che l’ansia contenuta nel proprio respiro si perda tra le note della canzone che gira in quel momento. Torna ad appoggiare la fronte sul vetro, dove adesso vede riflessa una robusta donna di colore. Si volta, pone la visuale all’interno dell’autobus. E percepisce due labbra scure che si rivolgono proprio a lui, senza tuttavia emettere alcun suono.
Michele tira il cavo degli auricolari. E’ un attimo, e tutti i rumori del mondo reale gli convergono addosso: le ruote che pesantemente inseguono l’asfalto; la radio dell’autista che vibra, tenue, in sottofondo; l’eco impercettibile dell’ipod che ubbidiente continua a funzionare. E l’accento africano di una signora vestita di verde.
“…mano te?”
“Come, scusi?”
“Vuoi io leggere mano te?”
Michele torna ad affondare la fronte nel finestrino. L’intenzione di rimettersi gli auricolari non trova concretezza, perché il movimento del ragazzo è bloccato con insistenza da un braccio scuro.
“Io leggere mano te.”
“No, mi dispiace, non ho spiccioli.”
“Spiccioli?”
“Soldi.”
“Io no volere soldi! Io solo volere leggere mano te.”
Seccato, Michele si stringe sul sedile, facendo posto alla donna che subito siede accanto al ragazzo. Lei cerca il palmo dell’altro, lo tira a sé, ne apre le dita con la stessa disinvoltura con cui si sfoglia una margherita. Infine, lo posa sulle sue gambe. Gli occhi della donna sono intrisi di nera avidità mentre scorrono sulle linee disegnate sulla mancina del ragazzo.
“Questa essere linea di amore. Ohh, ragazzo pieno di amore tu!”
“E’ sicura di saper leggere?”
Nel volto della donna riluce un sorriso.
“Io migliore di paese mio.”
“Mh, se lo dice lei…”
Anche Michele sorride. Quell’incontro ha colorato di diversità il suo viaggio in autobus.
“Questa essere linea di fortuna. Ragazzo no tanto fortunato tu.”
“Eh si sa. Pazienza.”
“Fortuna importante. Ma amore di più.”
“Se lo dice lei…”
Ripete Michele, quasi divertito. Scuote la testa, cosicché dense ciocche di nera vernice oscillano sulle spalle del ragazzo. Riverberi ombrosi si dipingono sul volto pallido, che curioso aspetta un terzo verdetto dalla donna.
“Questa essere linea di vita.”
Il sorriso che scema, il viso che si ghiaccia. Gli occhi dell’africana, pietrificati dall’orrore, ricercano quelli di Michele.
“Tu pericolo.”
“Eh?”
“Morte, morte vicina!”
“Non si preoccupi, non credo a queste cose.”
“Linea dice che morte è ora.”
“Ma la smetta!”
Michele ritira la mano. Nello sguardo due fessure azzurre riflettono ostilità. Rivolge un cenno affilato alla donna, che obbediente si allontana dal sedile, lasciando dietro sé la traccia verde del proprio vestito.
Il ragazzo infila gli auricolari nelle orecchie. Sente la musica dare un ritmo ai pensieri, ma non la ascolta veramente. Toglie uno zaino da sotto il sedile. Lo porta al petto, e lentamente apre la cerniera. Butta un’occhiata all’interno. Gli basta un attimo per vedere il calcio di una pistola.

Tristezza

Sostantivo, femminile.

(1) Il sentimento che ti prende nel salire sul pullman delle 18:19, Lucca via Ripafratta.

(2) Lo sguardo condannato dell’autista del pullman delle 18:19, Lucca via Ripafratta.

(3) I sedili vuoti del pullman delle 18:19, Lucca via Ripafratta.

(4) Le facce stanche dei pochi passeggeri morti del pullman delle 18:19, Lucca via Ripafratta.

Vorrei essere

Vorrei essere un poliziotto. Di quelli che vanno a giro in borghese, coi jeans belli e il giacchetto di pelle bello. Si riconosce subito un poliziotto in borghese: hanno i jeans belli, il giacchetto di pelle bello, gli occhiali da sole (belli) e la classica espressione io-sono-un-tipo-tosto. E’ meraviglioso quando partono a correre, scattano verso il criminale impugnando la pistola, lo bloccano in una strada senza uscita (che è sempre la solita strada senza uscita, con i muri altissimi su tre lati e un bidone dell’immondizia) e, con la sicurezza di chi sa di essere superfighissimo, gli dicono: “Sei arrivato al capolinea, amico”.

Vorrei essere un medico. Ma non un medico di famiglia, o un medico noioso della vita di tutti i giorni. Con tutto il rispetto per loro, ovviamente. Il medico che vorrei essere avrebbe tutta una sua filosofia, tutto un suo stile. Chessò: cinico all’estremo, dal sarcasmo facile, costretto a camminare con un bastone, assuefatto di antidolorifici… Ah, già è stato inventato?

Vorrei essere un calciatore. Una trentina di miliardi per stipendio, una trentina di vocaboli di lessico, una trentina di micrometri cubici di dimensioni cerebrali, una trentina di secondi come tempo di reazione. No, non sto generalizzando. E’ scientificamente provato che la grandezza cranica di un calciatore è inversamente proporzionale al suo conto in banca. Ed è ormai assodato che l’incapacità di pensare sia uno dei pregi più utili che si possa avere.

Vorrei essere un fisico. Perché io non riesco proprio a concepirla questa ossessione di volersi spiegare i fenomeni naturali, a chiedersi il motivo di ogni cosa che accade. Beh, quando è utile, quando porta benessere, quando è giusto, allora sì. Ma di norma io preferisco il mistero, la suspense, l’ignoto. E restare stupito. Mi ricordo che quando la maestra di scienze mi spiegò come si forma l’arcobaleno io andai a casa tutto mogio. Per forza: mi aveva rovinato la poesia. Peggio che dirmi che Babbo Natale non esiste (cosa che, tra l’altro mi disse un’altra maestra. A pensarci bene… io avevo proprio delle maestre terroriste!).

Vorrei essere un regista. Che è la piena espressione del potere. Il suo compito è avere il controllo di tutto ciò che accade nel loro mondo. Un regista sa come muovere i burattini, sa come disporre i dettagli, sa come pronunciare i verbi. Muove una mano, schiocca le dita, apre le labbra e ordina il suo volere. Lui è il Dio, e gli altri non sono altro che un’inutile accozzaglia di organi.

In realtà… no, non vorrei essere niente di tutto questo. Ma scriverlo è stato – in qualche modo – divertente.

Goccia di pioggia sognante

Marzo è iniziato, ed è iniziato in modo pessimo.
Per esempio, piove.
Piove. Anche adesso, piove.
Infatti alzo il volume della musica, per non sentire altro. Che poi il ticchettio frenetico sulla tastiera ricorda tanto la pioggia che arriva giù, per cui ci dovrei essere pressoché abituato.
Pensavo: è buffa, la goccia di pioggia, no? Sfreccia giù incazzata nera, convinta di distruggere tutto, urlando che nessuno la può fermare. E poi: tic. Desolante. Dovrebbe prendersi un po’ meno sul serio, secondo me. Ho capito: si illude! Sì, si illude mentre scende, si illude di poter inondare, di affogare, di sommergere, di annegare, di affondare, di inabissare, di travolgere. Ma poi: tic, l’impatto. Ah ah ah. E’ solo una goccia di pioggia sognante. Cosa può fare contro il suolo, quel suolo freddo e sconfinato e duro e razionale? Terra compatta, fatta di convenzioni e concretezze. Solida roccia, una fusione precisa di regole e stereotipi. E allora eccola: cozza in un urto violento contro la superficie, poi sembra smarrita, trova una via nel terreno, filtra attraverso i granelli, scivola giù. E poi muore. Muore, la goccia di pioggia sognante, portando ancora dentro sé i ricordi – ormai relitti evanescenti – delle proprie speranze.