Orfeo

[ Attenzione. Lo scritto che segue è terribilmente personale, e con molta probabilità potrà sembrarvi disgustoso, melenso e, soprattutto, patetico. Si tratta – ahimé – di un post in cui non mi curerò di esplicitare tutto, ma anzi potrei lasciare oscure molte parti (con la conseguente antipatia che scaturirà nei confronti della mia enigmaticità insopportabile). Sarà un post in cui non mi curerò di scrivere attraverso uno stile particolare; potrei farvi ribrezzo, o urtare la vostra sensibilità, oppure scatenare reazioni di masochistico piacere. Sfortunatamente, questo post è anche necessario affinché il peso che mi opprime in questi giorni venga liberato in maniera definitiva. Per questo motivo non posso in alcun modo esimermi dallo scrivere – ammettere / rivelare / dichiarare pubblicamente – ciò che segue; quello che mi è concesso fare per alleggerire un eventuale imbarazzo è scusarmi preventivamente, e ricordarvi che potete interrompere la lettura in qualsiasi momento. Grazie ]
Si dice che le parole, in questi casi, non servano. Non sono d’accordo. Il mio caso è proprio quello che ha bisogno di parole: parole di conclusione. Quelle parole che alla fine di un romanzo hanno la funzione di chiarire ogni dettaglio che al lettore potrebbe essere rimasto confuso; quelle parole liberatorie, che magari sono già state pronunciate nell’intimità, ma che vanno ribadite per forza e con forza, altrimenti si ha l’impressione che manchi qualcosa, che non si potrà mai essere completamente soddisfatti, che la situazione non è stata davvero superata. Parole da far poi seguire da un punto, fermo e indelebile, in grado di porre fine non solo al periodo, né solo al capoverso, ma a tutto il capitolo. Ed è solo con questa certezza – questo punto – che si può cominciare un capitolo nuovo, denso di fatti, e descrizioni, e dialoghi, e colpi di scena. Il classico e banale “voltare pagina”. Ricominciare. Rinascere. E sia benedetto colui che ha inventato la leggenda della fenice che dopo la morte riprende vita dalle proprie ceneri, perché è un’immagine vivida, calda, luminosa, che in qualche modo… mi aiuta.


Voglio fare un paragone, sebbene già mi renda conto che non riuscirò neanche lontanamente a riprodurre nemmeno un’ombra vaga della mia situazione attuale. Nemmeno una sfumatura confusa del mio dolore. Al liceo avevo problemi con una materia, in particolare: fisica. Avevo un professore molto bravo, ma che esigeva un livello elevato. Le insufficienze – svariati 2 e 3 e 5 – arrivavano una dopo l’altra. Ogni tanto un 6 a farmi respirare, ma mai nessuna soddisfazione che mi convincesse che avevo realmente superato il mio ostacolo. All’inizio mi scoraggiai. Mi sentivo impotente, mi sembrava impossibile riuscire. Poi, finalmente, per quanto fosse strano in quel periodo che io avessi una qualche reazione determinata, presi quella difficoltà come una sfida. E la affrontai.
In questi giorni ho dato il peggio di me. Di fronte alle persone che costituiscono il meglio di me. Persone che mi hanno visto piangere finché c’erano lacrime; persone che sono venute a casa mia, la mattina, per buttarmi giù dal letto. Persone che mi hanno preso e messo su un treno, per tentare di farmi svagare; e riempito di gelato, e ogni altro genere di coccole, e non sono rimaste deluse se gli dicevo che quel gelato lo percepivo amaro, amarissimo. Persone che sono rimaste ore al telefono a sentire solo singhiozzi; persone che mi reggevano mentre mi vomitavo addosso, e mi portavano il bicchiere d’acqua alla bocca intanto che mi dicevano di “non sbrodolare, però”; persone che, dopo quattro ore di treno, la prima cosa che hanno fatto è stata quella di abbracciarmi. E ancora persone che mi hanno letto, in quelle due uniche frasi che riuscivo a dire – Non riesco, non ce la faccio – e risposto, l’unica risposta sicura che si può dare in questi casi – Mi spiace, ma il tempo, vedrai… Persone che mi passavano un nuovo fazzoletto mentre altre lacrime mi sommergevano di moccio, e mentre il sangue mi usciva dal naso ormai leso dal troppo piangere. Persone che, conoscendomi ormai molto bene, si sono fatte da parte, in silenzio, non chiedendomi niente, o facendo finta di nulla, perché sapevano che da parte loro io avrei voluto così; persone che hanno cambiato i loro programmi, per me; persone che mi davano dei colpi in testa, o mi tiravano per la maglia, non appena notavano che la mia mente aveva preso a vagare altrove. Persone che erano desiderose di darmi una mano, e dicendomi “Ci sono” aspettavano soltanto che io la chiedessi. Persone che hanno sopportato il mio immenso, sconfinato, incommensurabile egocentrismo; e le mie ripetitive, pesanti e patetiche richieste d’aiuto, e le hanno soddisfatte, offrendomi tutto quello che potevano, perfino il loro tempo. Persone che mi hanno donato la loro fisicità: sotto forma di abbracci, o di baci, o di pacche sulle spalle o sulle ginocchia; che mi hanno stretto, preso le mani, guidato, detto parole di conforto, parole sentite. Persone che amo e che normalmente chiamo amici, ma che in questo periodo ho visto soltanto come persone, perché non ero capace – né fisicamente, né mentalmente – a vedere importanti.


E dentro? Annegare. Non finire mai di annegare. Piangere, dentro. Soffrire. Sentire un vuoto, un vuoto che in qualche modo riesce ad essere pesantissimo. Svegliarsi, e desiderare che quel soffitto cadesse, subito, e facesse finire tutto. Avere paura di andare a dormire, per timore del risveglio, per timore di dover affrontare ogni ricordo, di nuovo. Perdere l’equilibrio, dentro. Convincersi delle parole “mai” e “impossibile”. Questo, dentro. Tanto, tantissimo vuoto.

Brucia come un taglio nel sale

Quando lei lo baciò disse: Amore,
non farmi male, non farmi soffrire
Capire il significato delle canzoni che solitamente si cantano sovrappensiero, capirlo davvero, coglierne il senso, davvero. Forse è l’unica cosa positiva che ho acquisito da quello che mi è capitato. Ascoltare una canzone, sentirla tua, come se fosse stata scritta per te; o guardare una commedia che sei già andato a vedere altre due volte, e improvvisamente avvertire più emozioni, capirla sotto l’influsso di sfumature nuove. Essere consapevoli. Essere sensibili.
Portami con te
non voltarti
conducimi alla luce del giorno
Portami con te
non lasciarmi
io sono bendato ma sento già il calore

E’ il momento di svegliarmi
è tempo di rinascere
sento addosso le tue mani
ed è un caldo richiamo perché
ho bisogno di svegliarmi
di prendermi cura di te
ritorno alla vita
Me l’hanno detto tutti quelli che l’hanno provato. Il tempo. Il tempo che ha il potere di guarire tutte le ferite. Il tempo. Il tempo mi fa incazzare: illude tutti che possa guarire le ferite. Invece fa una cosa diversa, decisamente più subdola: fa abituare alle ferite. La routine mi assorbirà di nuovo, e pian piano mi abituerò, passivamente, al dolore. No, non sono più il tipo che aspetta. Qualche anno fa aspettavo – aspettavo Godot – ma adesso non più. Negli ultimi tempi ho imparato a rischiare, a provare, a sudare, a mettermi in gioco. E ovviamente sono caduto molte volte: sono state più le volte in cui ho fallito che quelle in cui sono riuscito. Ma quelle volte in cui ho vinto mi hanno ripagato di tutti gli sforzi.
E allora?



E allora sono caduto. Questa di adesso è la caduta più dolorosa di tutte. Ho contusioni dappertutto. Lividi mentali. Graffi che ho più volte implorato si concretizzassero, affinché potessi finalmente sfogarmi per qualcosa che non fosse solo un’idea o un’assenza. E allora devo reagire. Non posso essere sottomesso dal tempo, o da sentenze universali. “Non mi innamorerò mai più”. No. Lo penso, ma lo voglio davvero? No. IO AMO. E non mi vergogno a dirlo. IO AMO. Sono condannato ad affezionarmi alle persone, a voler loro bene, ad aver bisogno di loro, a non poter stare solo. IO AMO. E accetto di soffrire, di cadere, di perdere, di annientarmi.
IO AMO
Questo era il punto. Questa era la conclusione che volevo affermare. Incidere sulla pelle, farla sanguinare. Imprimerla nei meandri della ragione, là dove si raccolgono le convinzioni più profonde. Io amo, e questo è il valore su cui si fonda tutta la mia vita. L’ho ammesso a me stesso. E ora l’ho detto, l’ho scritto. E’ qui, è fermo, e indelebile: il punto. Ora posso reagire, ora posso voltare pagina.


E ricordo – ricordo proprio adesso – che, al liceo, finì più o meno così:
Ce la posso fare.

La risposta è il colore del grano

Stasera ho pianto. Mi vergogno un po’ a scriverlo, ma contemporaneamente mi sento meglio. Dirlo è come prendere una boccata d’aria fresca. E ho pianto per un libro. Era tanto tempo che volevo leggere Il piccolo principe, e finalmente l’ho fatto. Leggerlo da bambini non è come leggerlo a ventun anni. Ci sono tanti sottotesti che non puoi cogliere, da bambino. E’ un libro che contiene delle parole impossibili da ricollegare all’esperienza, per un bambino.
In effetti, Il piccolo principe non è un libro per bambini. Perché sarebbe assurdo, stupido ed umiliante aver passato ore, settimane, mesi a chiedersi che cos’è l’amore, se esiste l’amore, perché si ama, se poi la risposta – quella più semplice e che chiaramente è quella giusta – la trovi in un libro per bambini. Non in un saggio sociologico, né in un trattato psicologico, o in un tomo scientifico. Un libro per bambini. Ripensandoci, non è poi così assurdo. Né stupido. Né umiliante.


In quel momento apparve la volpe.
<< Buon giorno >>, disse la volpe.
<< Buon giorno >>, rispose gentilmente il piccolo principe, voltandosi: ma non vide nessuno.
<< Sono qui >>, disse la voce, << sotto al melo…>>
<< Chi sei? >> domandò il piccolo principe, << sei molto carino…>>
<< Sono una volpe >>, disse la volpe.
<< Vieni a giocare con me >>, le propose il piccolo principe, << sono così triste…>>
<< Non posso giocare con te >> disse la volpe, << non sono addomesticata >>.
<< Ah! scusa >>, fece il piccolo principe.
Ma dopo un momento di riflessione soggiunse:
<< che cosa vuol dire “addomesticare”? >>
<< Non sei di queste parti tu >>, disse la volpe, << che cosa cerchi ? >>
<< Cerco gli uomini >>, disse il piccolo principe. << Che cosa vuol dire “addomesticare”? >>
<< Gli uomini >>, disse la volpe, << hanno dei fucili e cacciano. è molto noioso! Allevano anche delle galline. è il loro solo interesse.Tu cerchi delle galline? >>
<< No >>, disse il piccolo principe. << Cerco degli amici. Che cosa vuol dire “addomesticare” ? >>
<< è una cosa da molto dimenticata. vuol dire “creare dei legami”…>>
<< Creare dei legami? >>
<< Certo >>, disse la volpe. << Tu, fino ad ora, per me, non sei che un ragazzino uguale a centomila ragazzini. E non ho bisogno di te. E neppure tu hai bisogno di me. Io non sono per te che una volpe uguale a centomila volpi. Ma se tu mi addomestichi, noi avremo bisogno l’uno dell’altro. Tu sarai per me unico al mondo, e io sarò per te unica al mondo >>.
<< Comincio a capire >>, disse il piccolo principe. << C’è un fiore… credo che mi abbia addomesticato…>>
<< È possibile >>, disse la volpe. << Capita di tutto sulla Terra… >>
<< Oh! non è sulla Terra >>, disse il piccolo principe.
La volpe sembrò perplessa:
<< Su un altro pianeta ? >>
<< Si >>.
<< Ci sono dei cacciatori su questo pianeta ? >>
<< No >>.
<< Questo mi interessa! E delle galline ? >>
<< No >>.
<< Non c’è niente di perfetto >>, sospirò la volpe.
Ma la volpe ritornò alla sua idea:
<< La mia vita è monotona. Io dò la caccia alle galline e gli uomini danno la caccia a me. Tutte le galline si assomigliano, e tutti gli uomini si assomigliano. Ed io mi annoio perciò. Ma se tu mi addomestichi, la mia vita sarà come illuminata. Conoscerò un rumore di passi che sarà diverso da tutti gli altri. Gli altri passi mi fanno nascondere sotto terra. Il tuo, mi farà uscire dalla tana, come una musica. E poi, guarda! Vedi laggiù in fondo, i campi di grano ? Io non mangio il pane e il grano, per me è inutile. I campi di grano non mi ricordano nulla. E questo è triste! Ma tu hai dei capelli color dell’oro. Allora sarà meraviglioso quando mi avrai addomesticato. Il grano, che è dorato, mi farà pensare a te. E amerò il rumore del vento nel grano….>>
La volpe tacque e guardò a lungo il piccolo principe:
<< Per favore… addomesticami >>, disse.
<< Volentieri >>, rispose il piccolo principe, << ma non ho molto tempo, però. Ho da scoprire degli amici, e da conoscere molte cose >>.
<< Non si conoscono che le cose che si addomesticano >>, disse la volpe. << Gli uomini non hanno più il tempo per conoscere nulla. Comprano dai mercanti le cose già fatte. Ma siccome non esistono mercanti di amici, gli uomini non hanno più amici. Se tu vuoi un amico addomesticami! >>
<< Che cosa bisogna fare? >> domandò il piccolo principe.
<< Bisogna essere molto pazienti >>, rispose la volpe. << In principio tu ti siederai un pò lontano da me, così, nell’erba. Io ti guarderò con la coda dell’occhio e tu non dirai nulla. Le parole sono una fonte di malintesi. Ma ogni giorno tu potrai sederti un pò più vicino… >>
Il piccolo principe ritornò l’indomani.
<< Sarebbe stato meglio ritornare alla stessa ora >>, disse la volpe. << Se tu vieni, per esempio, tutti i pomeriggi alle quattro, dalle tre io comincerò ad essere felice. Col passare dell’ora aumenterà la mia felicità. Quando saranno le quattro, incomincerò ad agitarmi e ad inquietarmi; scoprirò il prezzo della felicità! Ma se tu vieni non si sà quando, io non saprò mai a che ora prepararmi il cuore… Ci vogliono i riti >>.
<< Che cos’è un rito ? >> disse il piccolo principe.
< < Anche questa è una cosa da tempo dimenticata >>, disse la volpe. << è quello che fà un giorno diverso dagli altri giorni, un’ora diversa dalle altre ore. C’è un rito, per esempio, presso i miei cacciatori. Il giovedì ballano con le ragazze del villaggio. Allora il giovedì è un giorno meraviglioso! Io mi spingo sino alla vigna. Se i cacciatori ballassero in un giorno qualsiasi, i giorni si assomiglierebbero tutti, e non avrei mai vacanza >>.
Così il piccolo principe addomesticò la volpe.
E quando l’ora della partenza fu vicina:
<< Ah! >> disse la volpe, << … piangerò >>.
<< La colpa è tua >>, disse il piccolo principe, << io, non ti volevo far del male, ma tu hai voluto che ti addomesticassi… >>
<< È vero >>, disse la volpe.
<< Ma piangerai! >> disse il piccolo principe.
<< è certo >> disse la volpe.
<< ma allora che ci guadagni? >>

<< Ci guadagno >>, disse la volpe, << il colore del grano >>.
Poi soggiunse:
<< Và a rivedere le rose. Capirai che la tua è unica al mondo.
<< Quando ritornerai a dirmi addio, ti regalerò un segreto >>.
Il piccolo principe se ne andò a rivedere le rose.
<< Voi non siete per niente simili alla mia rosa, voi non siete ancora niente >>, disse. << Nessuno vi ha addomesticato, e voi non avete addomesticato nessuno. Voi siete come era la mia volpe. Non era che una volpe uguale a centomila altre. ma ne ho fatto il mio amico ed ora è per me unica al mondo >>.
E le rose erano a disagio.
<< Voi siete belle, ma siete vuote >>, disse ancora. << Non si può morire per voi. certamente, un qualsiasi passante crederebbe che la mia rosa vi rassomigli, ma lei, lei sola, è più importante di tutte voi, Perché è lei che ho innaffiata. Perché è lei che ho messa sotto la campana di vetro. Perché è lei che ho riparata col paravento. Perché su di lei ho uccisi i bruchi (salvo i due o tre per le farfalle).
Perché è lei che ho ascoltato lamentarsi o vantarsi, o anche qualche volta tacere.
Perché è la mia rosa >>.
E ritornò dalla volpe.
<< Addio >>, disse.
<< Addio >>, disse la volpe. <non si vede bene che col cuore.
L’essenziale è invisibile agli occhi >>.
<< L’essenziale è invisibile agli occhi >>, ripeté il piccolo principe, per ricordarselo.
<< È il tempo che tu hai perduto per la tua rosa che ha fatto la tua rosa così importante >>.
<< È il tempo che ho perduto pe rla mia rosa.. >> sussurrò il piccolo principe per ricordarselo.
<< Gli uomini hanno dimenticato questa verità.
Ma tu non la devi dimenticare. Tu diventi responsabile per sempre di quello che hai addomesticato.
Tu sei responsabile della tua rosa… >>
<< Io sono responsabile della mia rosa..>> ripetè il piccolo principe per ricordarselo.”

Non ti preoccupi mai della fine del mondo, Charlie Brown?

Dipende. Che giorno è oggi?

Martedì.

Beh, il Martedì mi preoccupo dei problemi della personalità.
Giovedì è il giorno in cui mi preoccupo della fine del mondo.

Chi fa da sé fa per tre

Stamani mi sono svegliato che ce l’avevo a morte con i proverbi. 
Durante lo studio mattutino ho provato a dimostrare insieme a una mia compagna di corso che c’era una contradizione tra i modi di dire “Meglio soli che male accompagnati” e “Due è meglio di uno”. Abbiamo pure formalizzato tutti i passaggi (e ho una foto che testimonia ciò!) per poi realizzare che avevamo sbagliato l’ipotesi di base. Infatti, arrivati alla pausa pranzo, il mio guru – che viene dalla facoltà di Matematica e per questo si crede molto figo – ha espresso il suo disappunto per l’assenza di una definizione formale di proverbio, e ci ha mostrato tutte le pecche del nostro ragionamento. 
Ad ogni modo, siccome oggi c’ho proprio il pallino dei proverbi, vorrei farvi un altro esempio di come questi siano incompleti e possano portare sulla strada sbagliata. Prendiamo il tanto usato
chi fa da sé fa per tre
Dunque, sappiamo tutti benissimo che il concetto che si vuole esprimere dicendo ciò è: “A volte se si è in tanti a fare una cosa si rischia di fare casino, cosa che non succederebbe se si fosse da soli”. Ora, riflettiamoci. Perché c’è bisogno di dire chi fa da sé fa per tre?! Per la rima?!?! Ma allora sarebbe decisamente più efficiente una cosa come… Boh, non saprei… Ecco: “meglio da me che con te”. Ma il numero tre è un riferimento preciso, Cribbio! 

Cazzo, ho detto proprio Cribbio!
Cinquecento flessioni, Ale, forza.

Anf, anf, eccomi. Dicevo: quel tre lì complica tutto, perché rende tutto più scientifico! Non occorre aver dato Analisi II per capirlo, ci arriva anche un bambino di terza elementare, basta aver fatto le moltiplicazioni: se una persona da sola fa per tre persone, due persone da sole fanno per sei. E x persone da sole fanno per 3x. Okay, per quest’ultima espressione magari serve la prima media. 
E’ necessario che le persone siano da sole, certo. Perché il proverbio specifica quel “da sé”. Ma non occorre essere dei principi del foro per trovare il cavillo che ci permette di aggirare questa clausola.
Facciamo un esempio pratico: devo fare un dolce. Beh. Una persona sola lavora per tre persone. Non posso mettere un’altra persona a fare lo stesso dolce, perché altrimenti non varrebbe più il proverbio, e sarebbero semplicemente due persone a fare un dolce. TUTTAVIA, se divido i compiti, e dico alla prima persona di lavorare da sola all’impasto, e alla seconda persona di preparare da sola la crema, avrò sei persone (due per tre!) che lavorano per lo stesso dolce! E per lo stesso principio posso mettere una terza persona che lavora da sola al forno, che ne so… 

Ora, il dubbio è: se ho tre persone che mangiano tre fette di dolce, in realtà ho nove persone che mangiano tre fette di dolce. Quante fette di dolce devono mangiare nove persone – che in realtà sono tre – per essere sazie?

Ecco. Ora ho fame. Dannati proverbi.

Di astucci e altre stronzate

Tanto da fare implica tanta assenza dal blog. Ho già chiesto scusa troppe volte per cui penso sia meglio passare direttamente alla ciccia. Se siete qui è perché siete desiderosi di leggermi. Oddio. Forse sono un po’ troppo ottimista. Rielaboro la frase. Se siete qui è perché siete i classici individui affetti da DDS. Dipendenza Da Stronzate. Quindi, prima che andiate a rota, eccole.

1) 
C’è una questione che mi tormenta da qualche tempo a questa parte. 
(Parentesi: la locuzione “da qualche tempo a questa parte” è pallosa e vagamente qualunquista, e soprattutto è sintatticamente indecifrabile, per cui mi vergogno di averla scritta. Ma ormai c’è, e mi ha dato lo spunto per scrivere questa geniale parentesi con cui inizialmente volevo solo chiedere perdono…)
Dicevo. La questione che mi tormenta da qualche tempo a questa parte (e adesso non starei a farci i poemi) è questa. Ora vado all’università. Magari anche voi ci andate. E siamo tutti andati alle elementari, alle medie e alle superiori (che poi ora si dovrebbero chiamare in un altro modo grazie all’indispensabile Riforma Moratti, ma tutti continuano a chiamarle elementari, medie e superiori). Bene. Abbiamo tutti avuto un astuccio. Qualche settimana fa ho realizzato che quando (e se) inizierò a lavorare, non avrò più un astuccio. Perché magari le penne e le gomme e le matite saranno in ufficio. Chiedo un minuto di raccoglimento, per favore. Pensiamoci. Non avremo più un astuccio. Non vi nascondo che ci sono rimasto parecchio male. Insomma, sono abituato a stare con l’astuccio con tutti i miei pennarellini e le dozzine di penne di riserva, e… No, non ne posso parlare, mi viene da piangere. Inizierò a lavorare, l’astuccio per qualche mese rimarrà sulla scrivania. Poi verrà spostato, da qualcuno. Forse da me. E dopo un anno, già mi immagino: “Dov’è finito l’astuccio?” “Mah, sarà insieme alle cianfrusaglie dell’università, o l’avrai tirato via, o…” e qui inizierò a tremare “…o forse è in soffitta“. NOOOOOOOOOO! IN SOFFITTA NOOOOOOOO!!! Tutto ciò che finisce in soffitta non viene più ritrovato. La mia soffitta è un ottimo nascondiglio per i cadaveri. E’ come avere un buco nero in casa. Addio, mio piccolo astuccio. Ricorderò con affetto le funzioni seno e coseno che avevo disegnato su di te. Addio.
2) 
Ho sviluppato una pessima abitudine, e vorrei confessarla qui, perché è come avere un peccato da espiare. Non vado dal prete per confessare i peccati. E il fatto che io sia non credente ha una rilevanza marginale in questa scelta. Non ho mai capito cosa gliene dovrebbe fregare al prete dei miei peccati. E’ una cosa molto stupida: se tanto Dio vede e sente tutto, perché non confessarsi da soli, pregando, senza passare da un intermediario che potrebbe essere indiscreto e soprattutto portare a quello che non è il meglio per una persona? Capisco solo l’intento di volersi sfogare, di condividere un peso con qualcuno. Ma ci sono gli amici per quello, o gli psicologi – che sono sicuramente più preparati in materia. Finita anche per oggi la digressione religiosa – qualche frecciatina ce la devo mettere ogni volta, ormai lo sapete. Il mio è odio profondo, non c’è niente da fare – posso tornare all’argomento iniziale: la mia pessima abitudine. Sì. Ho iniziato a dire
è chiaro

in ogni discorso. Il che è orribile, perché mi fa passare per il saputello arrogante e precisino, quando magari voglio semplicemente utilizzare un intercalare diverso dai soliti tipo, cioè, in realtà, tuttavia (per questi ultimi due la colpa è del mio guru…). Certo, meglio dire
è chiaro

che dire è logico, o è scontato, ma mi dà quest’aria presuntuosa che forse non avrei se non dicessi così tanto spesso
è chiaro

, capite? Questa cosa mi turba.
3)
Sarò breve, una volta tanto: ‘sto tempo ha rotto. E’ Maggio, NON Novembre.


4)
E anche l’ultima replica di Dio è andata. Con alti e bassi. Durante le prime tre performance mi ero chiesto come avrei potuto non ammalarmi con la testa umida (avevo due tipi diversi di gel e due tipi diversi di schiuma sul capo…). E, puntualmente, la febbre è arrivata il giorno dopo l’ultimo spettacolo. Ho ancora un pesante raffreddore che combatto con ogni rimedio naturale possibile (non posso aggiungere altre medicine a quelle che già prendo!). Per esempio, il latte e miele è portentoso contro la tosse. E le sciarpine – che comunque non tolgo mai anche quando sono sano come un pesce – mi tengono il collo bene al caldo! E ovviamente la frutta. A pranzo ho mangiato un arancio (anche se ho fatto fatica a sbucciarlo, tra un po’ mi rovesciavo tutto addosso) e stasera ho concluso la cena con due mele. Se una al giorno toglie il medico di torno, mangiandone due ho praticamente un check up giornaliero.


Cose, caso, caos

La vita è tale per cui a noi che ne usufruiamo succedono cose. Più precisamente: a me succede una cosa, a te ne succede un’altra, a lui un’altra ancora. A tutti succedono cose. La cosa straordinaria è quando le cose che succedono a uno sono causa od effetto delle cose che succedono a un altro. Le cose succedono, si incrociano, e così causano altre cose, che sarebbero state diverse se ad incrociarsi fossero state altre cose ancora.

Probabilmente, dopo questo preambolo ingarbugliato, l’unica cosa ad essere incrociata sarà la vostra mente. Non avevo intenzione di causarvi questi scompensi logici (o forse un po’ sì…), ma solo di arrivare alla domanda: chi decide le combinazioni e gli incroci che causano le cose che succedono?

E’ fortuna e sfortuna?

E’ il karma?

E’ un’entità superiore universalmente conociuta sotto il nome di Dio?

E’ semplicemente il caso?

Ma soprattutto: perché mi faccio queste domande dopo una giornata uggiosa passata a studiare? Miei cari lettori, vi lascio con un sorriso. E poiché ho idea che di un mio sorriso ve ne facciate poco, vi lascio anche con un video che riguarda ciò che ho appena scritto.


A volte a nostra insaputa ci troviamo diretti verso un precipizio.
Sia che ciò avvenga per caso o intenzionalmente non possiamo fare niente per evitarlo.

Una donna a Parigi stava uscendo a fare compere, ma aveva dimenticato il soprabito e tornò indietro a prenderlo. Mentre era lì squillò il telefono e lei rispose e parlò per un paio di minuti.

Mentre la donna era al telefono, Daisy stava provando lo spettacolo all’ Opèra de Paris. E mentre lei provava, la donna, finito di parlare a telefono, era uscita per prendere un taxi.

Un tassista poco prima aveva scaricato un cliente e si era fermato a prendere un caffè… e intanto Daisy continuava a provare. E questo tassista, che si era fermato per un caffè, prese a bordo la donna che andava a fare compere e che aveva perso l’altro taxi.

Il taxi dovette fermarsi per un uomo che stava andando a lavoro in ritardo di 5 minuti perché si era dimenticato di mettere la sveglia.

Mentre quell’uomo in ritardo attraversava la strada, Daisy aveva finito le prove e si stava facendo la doccia.

E mentre Daisy si faceva la doccia, il taxi aspettava la donna che era entrata in una pasticceria a ritirare un pacchetto che però non era pronto perché la commessa si era lasciata col fidanzato la sera prima e se n’ era dimenticata.

Ritirato il pacchetto, la donna era rientrata nel taxi, che rimase bloccato da un furgone. E intanto Daisy si stava vestendo.

Il furgone si spostò e il taxi poté ripartire, mentre Daisy, ultima a vestirsi, si fermò ad aspettare un amica alla quale si era rotto un laccio.

Mentre il taxi era fermo ad un semaforo, Daisy e la sua amica uscirono dal retro del teatro.

Se solo una cosa fosse andata diversamente… Se quel laccio non si fosse rotto o se quel furgone si fosse spostato un momento prima o se quel pacchetto fosse stato pronto perché la commessa non si era lasciata col fidanzato o quell’ uomo avesse messo la sveglia e si fosse alzato 5 minuti prima o se quel tassista non si fosse fermato a prendere il caffè o se quella donna si fosse ricordata del soprabito e avesse preso un taxi prima…

Daisy e la sua amica avrebbero attraversato la strada e il taxi sarebbe sfilato via.

Ma la vita, essendo quella che è, aveva creato una serie di circostanze incrociate e incontrollabili, per cui quel taxi non sfilò via… E quel tassista si distrasse un momento… E così il taxi investì Daisy… e la sua gamba fu spezzata…

Lavitava

La vita va
E’ perpetuo il moto
Lo scienziato sa come prenderla 

Felicità: ci si arriva a nuoto
Ci si spoglia
Si leva l’ancora 

Quando lei lo baciò, disse:
Amore, non farmi male
Non farmi soffrire
Ho fatto un sogno: tu c’eri 

Vivo così
Tra il sociale e il vuoto
Guarda gli alberi come crescono 

Felicità: ci vorrebbe un prete
o un Mondo delle Idee comprensibile 

Quando lui la baciò, si sbagliava
Forse mentiva, piangeva di gioia
Ha dèi crudeli, la vita 

Quando lei se ne andò,
mi ricordo bene il suo sguardo
Lasciò qui la giacca. Il mio amore è freddo. 


E’ sempre piacevole sapere di non essere un problema. Forse è per sentirmelo dire che lo chiedo, anche quando ho studiato una persona talmente a fondo che sono sicuro che la sua risposta sarebbe positiva. Sapere di non essere un problema è piacevole, sopratutto se hai mangiato una focaccina dal gusto discutibile, e se sei seduto su un pavimento duro e scomodo (che poi, in realtà, è la posizione ad essere scomoda e a farti percepire il pavimento come duro).
E’ piacevole, a volte, lasciarsi andare come fa la vita nelle canzoni dei Baustelle, e dire quel che si vuole dire, e fare quel che si vuole fare, e non preoccuparsi se il tuo stupido cappellino darà noia a quello dietro di te, perché al massimo sarà lui a chiederti di toglierlo. E’ piacevole, ma è anche difficile, dire la verità, e promettere di tenere duro anche se si sa che quella promessa si sfalderà come vernice arrugginita.
E’ piacevole non pensare, è piacevole essere al concerto di uno dei tuoi gruppi preferiti e non pensare, è piacevole avere tanto sonno da non pensare. Ed è piacevole sapere che anche se più o meno nessuno dei tuoi lettori potrà capire un emerito tubo di quello che hai scritto, tu lo pubblicherai lo stesso, perché ti va di farlo e alla fine chissenefrega. Ma magari lo metto in bianco, che si confonda con lo sfondo.

Dio 2.0: eccezionalmente metafisico

Quando Simone Lippi mi ha telefonato per propormi una parte nella commedia che avrebbe diretto qualche mese dopo, io non ero molto convinto di accettare. Ero interessato a imparare a recitare, non ad andare in scena davvero! Rimanemmo d’accordo che mi avrebbe mandato il copione, e quando lo lessi me ne innamorai. E così ho iniziato le prove: il mio personaggio si chiama Cìrrosi (sì, come la malattia, ma con l’accento sulla i) ed è un informatico mezzo incapace che s’ingallisce quando vede una donna.

Inizialmente mi sentivo proprio negato. Al di là della memoria per le battute, che comunque sapevo che sarebbe stata un problema, non credevo di essere capace a livello interpretativo. Fa molta soddisfazione, adesso, vedere come io sia migliorato. Certo, niente di straordinario: nessuno mi darà l’Oscar – per fortuna, perché non ho pronto nessun discorsino – ma il mio personaggio era credibile, e questo è tantissimo!

Se si esclude la recita di quinta elementare, per me era la prima volta su un palco. Il che significa che un momento prima di entrare in scena stavo per disgregarmi dalla realtà e lasciare solo una vaga scia di ansia. Fortuna che tutto il gel che avevo nei capelli (e la lacca, e la schiuma, e un sacco di altre robe schifose) mi ha tenuto allo stato solido. Così ho fatto la mia parte e quando tutto è finito non potevo sentirmi più soddisfatto.

Domenica pomeriggio mi dispiaceva dover smontare tutto. In particolare, l’immagine del teatro deserto è una delle più desolanti che abbia mai visto. Su quelle poltroncine qualche ora prima c’erano tanti spettatori divertiti da una commedia brillante ed imprevedibile, di cui ogni personaggio diceva non possedere un finale. Ma si sa: il trucco per scrivere una buona commedia è cominciare dal finale. Basta trovare un finale ad effetto e poi si torna indietro, e si scrive il resto.





Playback Theatre

Uno spettacolo di playback theatre vede in scena diversi elementi: un conduttore, un musicista, qualche attore, e soprattutto il pubblico. E’ una forma di teatro sociale basata sull’improvvisazione, ma per le spiegazioni tecniche vi ho già segnalato il link di wikipedia dove potrete capire di che si tratta ed avere una visione sommaria di questo tipo di arte: in sostanza, gli spettatori che desiderano condividere una propria storia si fanno avanti e la raccontano; pochi secondi dopo, senza che nessuno si sia messo d’accordo, senza che nessuno abbia stilato nemmeno una riga di canovaccio, quella storia appena espressa viene rappresentata. 
Bene. Adesso so per certo che sarete tutti delusi e convintissimi che questo tipo di teatro non fa per voi, non vi piace, non lo trovate così emozionante e – anzi – pensate che la pubblicità che in questo momento io sto facendo sia immotivata e banale.
Bene. Sbagliate. Semplicemente perché è impossibile scrivere quello che è davvero il playback theatre senza averlo visto. Nessuno ci riuscirebbe, figuriamoci io (che per giunta ho il mal di schiena e stanotte ho dormito poco!).

Ho frequentato un corso di playback theatre organizzato dalla Compagnia degli Empatheatre, ed è una delle più belle esperienze che mi sia mai capitato di fare. Essere lì, essere te, ed essere chi ti senti di essere: è una piccola bolla di libertà che per diversi mesi mi sono ritagliato ogni Lunedì sera. Stabilire un contatto con gli altri attori, ricercarne l’appoggio senza mettersi d’accordo a voce: basta uno sguardo, anzi, no!, basta essere accanto, anzi, no!, basta sentirsi, sentire che ci siamo. Non è possibile sbagliare, se ti fidi di te stesso e degli altri. E quello che ricevi è mostruosamente toccante. Non posso parlarne con troppa cognizione di causa: in fondo io ho solo partecipato ad un corso, ho dato il mio contributo a quello che al massimo può essere lo scheletro di uno spettacolo, ma non ho mai realmente partecipato a una vera e propria performance. Ma se rappresentare le storie dei miei compagni di corso è stato così emozionante, chissà quanto potrebbe esserlo interpretare le storie di persone sconosciute che ti vengono a vedere!

Ieri sera sono stato per la prima volta a una performance degli Empatheatre. Ero attentissimo a quello che facevano, perché per la prima volta li vedevo come artisti e non come insegnanti. E’ stato divertente, mi sono sentito bene.
E anche se lo scopo di questo post è quello di aumentare la frequenza di pagine web che parlano di playback (purtroppo è una forma di teatro poco praticata in Italia), colgo l’occasione per ringraziare tutti gli Empateatranti!

Vi lascio con l’immagine della Serenità, rappresentata ieri sera tramite una scultura fissa (metto anche la terminologia così faccio un po’ il figo).




R come repulsione. R come Rihanna!

Caso di studio numero 1: G.

Io: “Ciao G! Che ascoltavi?”
G: (con palese sarcasmo) “Prima alla radio hanno dato Rihanna. Mi sono commossa in macchina.”

Caso di studio numero 2: F.

Io: “Sai, ho notato che non solo Lady Gaga balbetta, ma anche Rihanna!”
F: “Si vede che il decolorante dei capelli le è filtrato nel cervello.”

Caso di studio numero 3: I.

Io: “Ciao I! Che ne pensi di Rihanna?”
I: “Assoluta indifferenza.”

Caso di studio numero 4: H.

Io: “Se ti dico Rihanna, qual è la prima cosa che ti viene in mente?”
H: “Variabile binomiale!”