N i n e

One. Prima italiana di Nine. Cinema Eden, Viareggio. E… non c’era un cane. Probabilmente i cani in questione erano a vedere l’attesissimo, famosissimo, premiatissimo, acclamatissimo (e un sacco di altri issimo) Avatar. Film che non ho ancora visto e nonostante questo si è già prenotato un intervento sul blog – con mio gran disappunto, tra l’altro. Comunque, parleremo di Avatar quando l’avrò visto. Adesso basta. Chiusa parentesi Avatar. Chiusa. Chiusa? Sì, lo è. Dicevo di Nine, il nuovo musical di Rob Marshall, già regista di Chicago. Mi è piaciuto. E questo post raccoglie qualche pensiero su questo film. Precisamente, nove.
Two. Penélope Cruz si conferma la mia attrice preferita. Dopo aver rubato a Scarlett Johansson il primo gradino del podio con la sua interpretazione in Volvèr, in questo film non ha fatto altro che ribadire la propria bravura, eleganza, bellezza e versatilità.

Three. Ma quanto fumano tutti?! I personaggi hanno un sigaretta costantemente incollata alle dita, e non appena la posano, iniziano a cantare come usignoli, sfoggiando voci limpide e cristalline. Tutti tranne Fergie, che paradossalmente è l’interprete della canzone più potente.


Four. Sofia Loren è – nel cast principale – l’unica attrice ad essere italiana. Ed è anche l’unica a non sembrarlo. Forse perché è nata italiana. E poi è stata imbalsamata. Questo spiegherebbe anche come mai appena prova a ridere le si vede una parte di cranio all’attaccatura dei capelli. Evidentemente le colle stanno perdendo d’effetto.

Five. Parliamo di questa Italia. Ho avuto l’impressione che il ritratto che le si è dato nel film rispecchiasse, più che l’immagine dell’Italia, quella dell’America. Con la sola differenza che in America se li sognano scenari così. 

Six. Seducenza allo stato puro. Ovviamente è un film incentrato molto sulla figura della donna, visto che ne analizza sette tipi, dall’amica alla moglie all’amante alla prostituta alla madre alla musa. Tutte analisi molto superficiali in realtà: non si può pretendere che in due ore si scavi nel cuore di così tanti personaggi. Ad ogni modo, le parentesi che apre su ognuna di loro sono interessanti. Sterili, ma interessanti.

Seven. Il titolo: nove. Okay, fa riferimento all’età mentale che il protagonista dice di avere. Ma è anche un chiaro richiamo alle muse dell’Antica Grecia. Ecco: la mia precisione maniacale è alquanto seccata dal fatto che poi le donne di Nine sono sette e non nove.

Eight. Canzoni e musiche molto carine. La mia preferita è l’Overture delle donne (che ho pubblicato in cima al post), poiché ci sono tutte e sette, seguita a ruota da Be italian di Fergie. Ma la cosa drammatica è che il mulo non mi scarica la colonna sonora!

Nine. Be italian!



La palestra: perché? Qui è spiegato l’oscuro motivo

Cell – *** Driiin ***
Bocca di Ale – Pronto?
Cervello di Ale – Frena, c’è uno stop
Cell – Prontoalessandrociaosonofrancescadellapales….
La voce femminile sfuma mentre il telefono viene gettato sul sedile del viaggiatore
Dopo dieci secondi viene attivato il vivavoce
Cell – (tra il preoccupato e il perplesso) Pronto? Pronto, c’è nessuno?
Bocca di Ale – Pronto.
Cervello di Ale – Ora è verde, parti
Cell – Pronto, Alessandro? Sono Francesca, della palestra (sbrodolata in inglese)
Bocca di Ale – Chi?
Cervello di Ale – Chi?
Cell – Francesca, della palestra (stessa sbrodolata anglosassoneggiante di prima)
Bocca di Ale – Ah, ciao!
Cervello di Ale – Chi?
Cell – Ciao! Ti volevo dir//
Cervello di Ale – Accosta.
Bocca di Ale – Scusami Francesca, è che adesso sto guidando. Un attimo che mi fermo eh…
Cell – Certo.
Bocca di Ale – Ecco, ci sono.
Cell – Ciao Alessandro, ti volevo dire che la palestra blablabla ti fa un regalo. Un mese omaggio di sport!
Cervello di Ale – Ci mancava anche questa.
Bocca di Ale – Ehm… Grazie? Cioè: grazie.
Cell – Prego! Così volevo chiederti quando avevi intenzione di iniziare.
Cervello di Ale – Rimanda-non-hai-tempo-esami-prove-corsi-casa-no-tempo-no-tempo
Bocca di Ale – Sì, ma siamo sicuri che… Ehm, scusa la diffidenza, eh…
Cell – Figurati!
Bocca di Ale – Ecco, ma siamo sicuri che poi il mese è proprio proprio omaggio?
Cervello di Ale – Per nulla, direi.
Cell – Dunque, tu provi il primo mese, poi se vuoi puoi decidere di continuare…
Bocca di Ale – Ahhhh!
Cervello di Ale – (fulminato da un’improvvisa illuminazione) Ehi, un momento. Dieci minuti fa, nel camerino del negozio, ti sei specchiato e io ho pensato che dovevi ricominciare un po’ di attività fisica.
Cell – Alessandro? Ci sei sempre?
Bocca di Ale
– Ahhh sì, scusa, è che il cervello ha fatto un discorso più lungo stavolta.
Cell – Come?
Cervello di Ale – Sei uno scaricabarili. E idiota. Uno scaricabarili idiota.
Bocca di Ale – Va bene, allora penso che verrò!
Cell
– Ottimo, a presto…
Bocca di Ale – A presto
Cervello di Ale – Ma gli struzzi sono davvero viola come quelli del Re Leone?

Blue monday

…che in italiano non si traduce con il letterale “Lunedì blu”, poiché è il nero che il modo di dire associa ad una giornata andata male. Oggi, secondo lo psicologo inglese Cliff Arnall, è il giorno più infelice dell’anno. Il terzo lunedì di Gennaio è il blue monday. A causa di tanti fattori: vacanze finite, estate lontana, tendenziale brutto tempo, buoni propositi per il nuovo anno già infranti e speranze già deluse.

Ora, con molta calma e una buona dose di raziocinio, cercherò di analizzare la mia giornata.

Domani ho un esame. Che molto probabilmente boccerò, poiché non ho avuto né il tempo né le forze per prepararmi adeguatamente (questo a voi non frega niente, ma a me serve per auto-convincermi e rasserenarmi che ho fatto tutto il possibile. Sì, esatto, bravi: me la racconto). Questa consapevolezza mi ha fatto rimanere più o meno tranquillo per tutto il giorno, e non mi sono nemmeno agitato troppo quando ho constatato che in otto ore di studio ero riuscito a fare solo due esercizi.

A pranzo ho mangiato un trancio di pizza e una focaccina. Ma ero insieme a due persone a cui voglio un bene immenso, per cui non è stato pesante. E poi… la schiacciatina con cecina-rucola-pomodori… è potente! 

La macchinetta del caffè non distribuiva più le palettine, né lo zucchero, con mio estremo disappunto. Ciò non è stato proprio proprio positivissimo in effetti. Anzi, quel caffè mi è andato giù con difficoltà, poiché sono abituato a prenderlo molto dolce (cinque pallini illuminati della macchinetta, per intenderci). Ma ciò ha contribuito a rendermi più vigile e concentrato nelle ore di studio successivo! Non tutto il male viene per nuocere, e nemmeno tutto il caffè amaro (bastardastronzainfame di una macchinetta, tra parentesi).

Ho notato di aver sviluppato una tendenza irritante a dire “poiché”. Questo a causa di tutti i teoremi di calcolo numerico che ho dovuto dimostrare, e di tutti i passaggi da giustificare. “Poiché” e “perciò” sono due parole che non sopporto, troppo formali. E adesso le metto in ogni frase, insieme a “tuttavia” e “okay” e “carino”. Ma, a pensarci bene, le parole non devono starmi antipatiche: è bene che mi abitui.

Sono tornato a casa per lenteacontattarmi. Che non significa che dovevo telefonarmi componendo il numero molto adagio. Ma credo che non ci fosse bisogno di spiegarvelo, ora che ci ragiono. Beh, comunque sono rimasto in casa sì e no venti minuti, per controllare la posta e bere un bicchier d’acqua. Mi sono portato un pezzo di pane in macchina da mangiare mentre ero in coda ai semafori (casualmente, trovo sempre un sacco di semafori rossi quando sono in ritardo, ed ero in ritardo di… troppo tempo). Beh, qui non c’è molto da dire… Ma il pane era fresco, dai.

Arrivo alla sede di Spett’attori, che sarebbe un corso di playback theatre a cui partecipo. Lo scrivo in inglese perché fa molto più figo, e così ho modo di tirarmela un po’ (e soprattutto perché non credo che esista un termine equivalente in italiano), ma in realtà è un semplice corso di teatro sociale, che consiste in tecniche sperimentali non difficili da spiegare. E’ stata una delle lezioni più emozionanti di tutto il corso. Non sto a entrare nei dettagli, ma quando sono uscito mi sentivo proprio… bene.

E ora sono qui, a scrivere cretinate sul mio blogghino. Dopo aver mangiato ed aver ascoltato un po’ di musica, ovviamente. E penso che, tutto sommato, paradossalmente, in conclusione (e tutta una serie di altre locuzioni come queste), il mio monday non è stato proprio proprio così blue.

Oggi c’è stata la manifestazione antirazzista di massa su Facebook. Stranamente, sono stato contento di essermi iscritto al social network

Il tuo Cristo è ebreo e la tua democrazia è greca. La tua scrittura è latina e i tuoi numeri sono arabi. La tua auto è giapponese. Il tuo caffè è brasiliano. Il tuo orologio è svizzero e il tuo walkman è coreano. La tua pizza è italiana e la tua camicia hawaiana. Le tue vacanze sono turche, tunisine o marocchine. Cittadino del mondo, non rimproverare al tuo vicino di essere straniero.


[ 1994, manifesto sui muri di Berlino ]



L’idea


Grazie. No, sul serio: grazie. Se avete deciso di darmi una possibilità nonostante il titolo che rimanda a un iperuranio platonico e nonostante abbiate esperienza di cosa succede quando mi metto a parlare di filosofia (vedi ultimo post), significa che avete fegato e magnanimità. Oppure che siete semplicemente degli sprovveduti che amano il rischio. Un po’ come quelli che attraversano la strada a un metro da Porta sant’Anna. Vezio li chiama “idioti”; anch’io uso lo stesso epiteto, tranne quando sono in vena di carinerie come adesso, momenti in cui uso l’espressione “sprovveduti che amano il rischio”. Affettuosamente, sia chiaro.

Ad ogni modo, qualsiasi sia il motivo che vi ha spinto a leggere queste prime righe, vi è andata bene. Non parlerò di filosofia. O meglio, non direttamente (perché si sa, la filosofia è ovunque!). Parlerò dell’idea, e dell’importanza di averla per primi. Perché è importante avere un’idea per primi, oppure averla nel momento giusto.

Esempio. John Cage era un musicista statunitense. Tra le sue opere, nel 1952 ne scrisse una, chiamata 4’33”, per qualsiasi strumento. Il pezzo consiste nel non suonare lo strumento per 4 minuti e 33 secondi. Questo brano in realtà ha profondi significati filosofici di cui io ho promesso di non parlare (comunque se siete curiosi potete leggerli su Wikipedia). Ma più che parlare dell’opera in sé, mi interessava dire che… se un qualsiasi cantante barra musicista barra deficiente, OGGI, pensasse di incidere un brano come questo, verrebbe altamente e immediatamente spernacchiato da tutti. Perché? Perché ci ha già pensato Cage! Se lo rifai tu non vale! E’ lui che ha avuto l’idea per primo. Lo stesso vale per ogni altra opera artistica del mondo, credo.

Al giorno d’oggi non è difficile procurarsi i mezzi per copiare un oggetto. Con un minimo di capacità, posso scrivere un libro copiandone un altro. Posso riprodurre fedelmente qualsiasi quadro del mondo. Posso fare la cover di qualsiasi canzone del mondo (beh, non io io, ma qualcuno dotato di una voce ascoltabile o cdell’abilità di suonare uno strumento potrebbe). Ma questo sarebbe – ovviamente, e per fortuna – plagio.

Ma se io – senza sapere di Cage – pensassi a una cosa analoga a 4’33”? Se io non conoscessi la trama dei Promessi Sposi e scrivessi una storia dagli stessi sviluppi? Se mi venisse in mente di scolpire qualcosa in grado di suscitare la stessa intensità emotiva della Pietà, pur non avendo mai visto l’originale e non avendo mai sentito parlare di Michelangelo? 

Beh, intanto rassicuro tutti che al massimo sarei in grado di costruire un pesce di pongo. Comunque, è chiaro che sarebbe plagio lo stesso. Ma con la differenza dell’assenza di malafede. Non che mi interessino le implicazioni legali del plagio, o la sua definizione in termini giuridici. Però la conclusione a cui umilmente riesco a giungere è che se vuoi far conoscere al mondo la tua arte, bisogna che ti sbrighi. Il successo è condizionato da due variabili: che tu sia il primo ad aver avuto quell’idea; e che quell’idea ti sia venuta nel momento giusto (ce lo volevo vedere un Cage nel Medioevo a proporre un pezzo muto. Sarebbe stato BRUCIATO in 4 minuti e 33 secondi, altro che…).

Tutto questo per dire che adesso siete qui a leggere le mie cazzate. Invece dovreste impiegare il vostro tempo per pensare e produrre la vostra idea. Prima che sia il vostro vicino di casa ad averla. 

Sostanza inzuppata nella cioccolata

Non ricordo se alle elementari abbia mai avuto un insegnante poco competente. Le maestre erano tutte brave, oppure io ero troppo ingenuo e ancora troppo poco istruito per percepire una qualche loro mancanza. Comunque ringrazierò sempre le storielle di Leda (“le vocali litigano, una piange e va via e lascia una lacrima, che è l’apostrofo”) e l’abaco di Paola (“il pallino verde indica le centinaia, e va nel terzo stecchino”), e i buffi rimproveri di Luigina (“cosa ci fanno ancora là fuori, quelle befane?! la campanella è suonataaaa!”).

Alle medie ero già più perspicace, e posso tranquillamente affermare che il professor FR (musica) è stato il peggior elemento di quei tre anni, in cui è riuscito a insegnarci a suonare Venus al flauto dolce. E basta. Beh, cosa pretendete da uno che lascia una classe a guardare un film di Boldi e De Sica e se ne va a provarci con le bidelle?

Pensando al liceo, invece, posso ricordare alcuni casi di professori particolarmente incapaci o idioti. Ma il premio per l’incompetenza credo spetti all’insegnante di filosofia della terza. NC. A distanza di quattro anni, voglio sperare che la sua abilità abbia raggiunto un livello accettabile. In breve, sarebbe davvero carino se avesse capito la differenza tra “spiegare” e “far leggere il libro dagli alunni”. E sarebbe altrettanto carino se avesse cominciato – finalmente – a studiare la filosofia.

Ad ogni modo, il post di oggi nasce proprio da un concetto che la giovanissima signora NC conosceva in modo sbagliato. Esatto, avete capito bene: sto per parlare di filosofia (ta ta ta taaaaa, musichina thriller). Non vorrei essere troppo palloso, quindi mi aiuterò con Wikipedia per descrivere l’esatta concezione pensata da Aristotele. Poi una bozza di quello che aveva capito NC leggendo dal libro. E poi finalmente possiamo passare alla mia versione, che è necessariamente più umile e idiota di quella aristotelica (e questo è il principale motivo per cui non mi troverete mai in un libro di filosofia).

Quindi:
– Aristotele (link): la sostanza è la più importante tra le categorie (che sono le caratteristiche fondamentali dell’essere), su cui poggiano tutte le altre categorie, e per cui una cosa può venir detta esistente.
– NC (il link non c’è, grazie al Cielo, ne metto uno a caso): insieme alla forma (come una cosa si presenta ai sensi) costituisce l’essenza di una cosa [in realtà questo concetto è parzialmente corretto, se sostituiamo qualche termine].

Grazie alla sbagliata interpretazione di NC, io ho potuto sviluppare una teoria. Questo è un punto a favore di NC, che subito viene perso se si pensa che tale teoria è completamente inutile e che viene pubblicata su questo blog insulso – di cui io però vado fierissimo, sia chiaro. 
Ero lì che facevo merenda coi befanini inzuppati nella cioccolata, e pensavo a una conversazione avuta l’altro giorno con i parenti. Mia sorella aveva visto in un negozio un mobile fatto a cilindro che ha la caratteristica di ruotare su sé stesso. Ecco: mamma sosteneva che fosse molto carino; nonna, al contrario, pensava che si trattasse di uno spreco di soldi, in quanto avrebbe occupato solo spazio e non sarebbe stato utile.
Io, avendo da poco sviluppato una viscida tendenza al politically correct, ho concluso che preferisco un giusto compromesso tra l’estetica e la funzionalità, tra il bello e l’utile, tra la forma e la sostanza. La virtù sta nel mezzo.

Vi chiederete: cosa c’entrano i befanini inzuppati nella cioccolata? C’entrano eccome, perché proprio oggi ripensavo a quella conversazione. E pensavo – dimenticando completamente il proposito del politically correct – che non è vero che la virtù sta nel mezzo. Perché una cosa deve essere necessariamente un compromesso tra ciò che è utile e ciò che è bello? Non può essere una cosa bellissima e anche utilissima? Non si può tendere al massimo dell’estetica e al massimo della funzionalità?

E poi ho pensato che i befanini inzuppati nella cioccolata erano davvero eccellenti, così ho dedicato le mie elucubrazioni all’alta pasticceria, argomento che esula da questi appena trattati (anche se probabilmente più interessanti e appetitosi).

E adesso, poiché trovo questo post molto noioso, dirò qualcosa che vi farà dimenticare di averlo letto: lo sapete che Tonio Cartonio non è più alla melevisione? E’ stato sostituito da suo cugino, un tal Milo Cotogno. Secondo me non è davvero suo cugino. Ha un’aria molto meno cretina. Peccato.

Dipendenze

C’è un filo sottilissimo che sostiene tutto il mio peso e mi impedisce di cadere nell’intorpidito oblio amebico di chi sceglie di lasciarsi trasportare dalla marea. Una estremità è attaccata al cielo, l’altra mi punge il collo e mi tiene sospeso in uno stato di confusa e forzata attenzione. Questo filo ha la consistenza del nylon e la fragilità del burro, ma soprattutto ha la dolcezza dello zucchero. Questo filo si chiama caffè, costa 35 centesimi ed è il motivo per cui ancora riesco a sopravvivere. 

Nei giorni scorsi mi sono reso conto che ho diversi vizi da cui dipendo. Chiamarli vizi non mi spaventa; anzi, non nascondo che averne soddisfa la mia insaziabile sete estetica. Dipendere dagli psicoattivi è maledettamente decadente. Forse lo sarebbe anche la nicotina, ma – ahimé – non sopporto l’odore della sigaretta né quello del fumo, senza contare che ingiallisce la punta delle dita, e lascia un alone marcio nei denti e un alito che personalmente preferisco evitare. Invece il caffè se ne va liberando gustosissimi succhi dolciastri, e per una mezz’oretta la bocca si bea nel piacere.

E poi dipendo dalla musica. Non riesco a concludere la giornata senza essermi fatto la mia buona dose di musica. E’ proprio impossibile, provo dolore quasi fisico (e non sto scherzando!) se non soddisfo questo bisogno. E’ un rituale che prevede delle tappe precise. Innanzitutto devo essere da solo, per cui mi barrico nella mia stanza. Ma non basta, perché possibilmente devo esserne il solo fruitore, quindi faccio in modo che le persone con cui convivo (anche chiamate sorella, papà, mamma, nonni) siano nelle stanze più lontane dalla mia – e a questo proposito ho scoperto che Affari Tuoi è un ottimo strumento di distrazione. Dopodiché alzo il volume e entro nel mio trip. Non uso quest’ultima parola a caso, i miei sono veri e propri viaggi in altri mondi: per questo mi servo soprattutto di musica onirico-psichedelica (o almeno che sembri tale). Invece, ultimamente, grazie alla mia consulente musicale di cui esistono ben poche repliche al mondo, ho scoperto di adorare il modo sensualissimo con cui Carmen Consoli strascica le doppie come se fossero una lettera sola. Chiusa parentesi.

Inoltre, non posso fare a meno, ogni tanto, di scrivere. Scrivere scemenze, come questa, o come praticamente ogni altra cosa che sta sul presente blog. O inventare parole nuove e dall’aria intellettuale, vedi il sopracitato (e sicuramente inesistente) “amebico”.

Ci sono dipendenze che non credevo di avere, e da cui nei giorni scorsi mi sono dovuto staccare. Per esempio quella che durante il sonno stabilivo con il mio cuscino. Il nostro era un rapporto simbiotico. Beh, il mio cuscino era il migliore cuscino del mondo, se ne sarebbe innamorato anche un insonne. Però purtroppo è affogato, e il nostro matrimonio è stato spezzato. Ad ogni modo, sono contento che tal divorzio sia avvenuto per il suo annegamento, e non per il mio.


Poiché non vorrei che si dubitasse della mia umanità (di cui io stesso mi interrogo più volte della sua esistenza) taccio su altri vizi – di cui mi dimentico più o meno volutamente – e concludo dicendo che la mia forse più grande dipendenza è quella dell’amicizia. Ma non aggiungo altro, perché non vorrei scadere nella retorica, e soprattutto perché sto coltivando da mesi l’immagine del cattivo ragazzo, e ciò sarebbe controproducente ai miei scopi (e a quelli della polizia, che ormai gioca a freccette con la mia faccia affissa sulle bacheche di tutta la procura). 


P.S. Disclaimer: questo post è stato scritto a causa di un’altra dipendenza che si è sviluppata pochi giorni or sono. Quella della ricerca della normalità. Vengo da un periodo un pochino scombussolato (e umidiccio, aggiungerei con un sorriso) e solo oggi ho deciso di ricercare le situazioni che vivevo prima di Natale. E ho scoperto che forse non sarà così difficile, se mi impegno. Per cui non prendete questo post come l’apoteosi della solennità o della serietà. C’è tanta, nuova ironia, qui dentro. Besos!


Dolcenera // Tornato

Il primo svegliarsi, dopo una sciagura, e in un impiccio, è un momento molto amaro. La mente, appena risentita, ricorre all’idee abituali della vita tranquilla antecedente; ma il pensiero del nuovo stato di cose le si affaccia subito sgarbatamente; e il dispiacere ne è più vivo in quel paragone istantaneo.

[ Alessandro Manzoni
I Promessi Sposi – cap II ]

Dolcenera // Buone nuove

Approfitto di questi minuti liberi per aggiornare un po’ il blogghino sulla situazione a casa. Situazione che è molto positiva, direi, in quanto i pavimenti e gran parte dei muri e dei mobili sono stati ripuliti dal fango. C’è ancora molto molto casino, e molte molte cose sono andate perdute, e la pioggia di certo non aiuta, ma siamo tutti stranamente più sollevati. La caldaia è stata recuperata, e questi sono tanti punti. Oggi dovrebbe essere il turno delle pentole e della mobilia, su cui riaffiora il fango anche dopo averla pulita. Io invece sarò impegnato nel cercare di recuperare gli lp di papà e mamma, ma temo sarà un’impresa impossibile. Nel frattempo, ho trasferito parte delle mie cose in una stanza al piano di sopra, a casa dei miei nonni. Se tutto va bene, già da domani dovremmo essere pronti per tornare a dormire là.
Sempre che i vigili ci facciano passare, perché con gran disappunto di papà (e quando dico “gran disappunto” intendo una reazione grottesca come quella fatta al giornalista de La Repubblica, non so se l’avete visto…) oggi sono saltati fuori con l’accesso chiuso persino ai residenti.

Dolcenera // Foto scattate la sera del 27 Dicembre 2009

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Albero di Natale
 
Pattume
 
Pattume (particolare). I miei fumetti
 
 Sul muro la linea dove si è fermato il fango
 
La cucina. Quasi quasi è meglio ora
rispetto a quando mamma si mette a fare la pizza.
Anta del mio armadio,
finita il giorno prima dell’esondazione
(non mi riesce ruotare l’immagine…)
Anta del mio armadio (particolare).
Una delle citazioni sul basso.
(anche qui non mi riesce ruotare la foto)
Anta del mio armadio (particolare).
Una delle citazioni in alto