La mia vita, più o meno.

Il monumentale cimitero di Père-Lachaise

– Parigi duemilaTredici –
#5

C’è una canzone, nell’ultimo album dei Baustelle – un album meraviglioso che si chiama Fantasma e tra le altre cose è l’unico disco che sono riuscito ad ascoltare per settimane perché tutto il resto mi dava fastidio – che si chiama Monumentale. Parla del cimitero (viva l’allegria, insomma). Ti invita a lasciare le cose futili, solo per un pomeriggio, e andare a visitare un cimitero. 
È in quest’ottica che sono andato a visitare il cimitero del Père-Lachaise, sempre in compagnia di Ciuffo (il mio amico dai capelli che si contorcono sulla sinistra, un po’ come Bersani), che prende in giro il mio gruppo preferito cantando cose come “Siamo i Baustelleeeee e facciamo canzoni tristiiiii perché siamo i Baustelleeeee e il sasso e la fontanaaaa”. Io lo lascio fare, tanto mi diverto e so che dopo torna ad ascoltarsi la discografia dei Jutty Ranx.

Al Père Lachaise sono seppellite millemila persone famose: è un posto gigantesco, che contiene le tombe di personcine come Marcel Proust, Edit Piaf, Chopin, Modigliani, Maria Callas, Jim Morrison, Honoré De Balzac, una quantità imprecisata di poeti romantici e un giornalista il cui pene riprodotto sulla statua previene dalla sterilità (o almeno così sembra, io nel dubbio una toccatina gliel’ho data).
Ma, soprattutto, al Père-Lachaise è seppellito Oscar Wilde. Dovete sapere che durante la mia complicata ed innarrabile adolescenza, io sia stato colpito dal concetto di arte predicato da Wilde. L’arte, tutta, è completamente inutile, è una frase che riassume tutto quello che penso e che mi ha influenzato per anni. Ancora oggi io sono molto legato all’artista e forse è per questo che vedere la sua tomba mi ha fatto un effetto strano, che adesso non so rendere a parole, perché non sono mai capace di rendere a parole quello che provo davvero. Il mio amico mi ha consigliato di lasciargli una penna. Mi sembrava un gesto bello, e l’ho fatto, consapevole che quella bic sarebbe stata probabilmente rubata da una prostituta che l’avrebbe usata per sniffare la coca, ma non importa. Quello è stato il mio omaggio a Oscar Wilde: un po’ come la sua arte, completamente inutile.

Post su Parigi duemilaTredici
     #1 Minuit à Paris
     #2 Liberté, egalité, fraternité
     #3 Tutti quanti voglion far gli snob 

Il Giocondo

– Parigi duemilaTredici –
#4
La piramide di vetro del Louvre in mezzo a tutti questi palazzi è anacronistica. 
Hai sentito che parola ho usato, Ale? ‘Anacronistica’!
Lo sguardo soddisfatto di Ciuffo dopo aver fatto sfoggio delle sue trovate lessicali è straordinario. Io e il mio amico (così apostrofato per via dei suoi capelli che gli stilizzano un’ondina sulla testa) abbiamo scelto il terzo giorno per la visita al Museo – e anche ad una caterva di altre cose che non avranno spazio in questi post su Parigi.

Nel Louvre ci sono così tante cose da vedere che quelle interessanti perdono quasi valore, in tutta quella marea di possibilità. Per esempio, davanti alla Gioconda c’era così tanta gente che a me ha interessato fotografare tutta quella calca di umanità davanti a un quadro più che il quadro stesso, che tanto abbiamo già visto tutti sui libri e in diversi spot della Tim
La Venere di Milo sarebbe la statua di Afrodite che cerca di fare qualcosa, ma non sappiamo cosa in quanto non ha più nessuna delle braccia: così sembra che sia lì, in posa, a farsi guardare, ed è effettivamente bellissima. La dimostrazione del fatto che a volte le cose bellissime rimangono bellissime anche quando si rompono, e non dobbiamo cambiare idea sulla loro bellezza solo perché si rompono. Ma non lo so se mi sono spiegato.
Forse è meglio raccontare del giorno dopo, quando siamo andati a vedere l’Arco di Trionfo fatto costruire da Napoleone, e forse è carino dire che abbiamo girottolato attorno all’Arco. Cantando Waterloo.

Tutti quanti voglion far gli snob

– Parigi duemilaTredici –
#3
I parigini sono creature strane. Sono sommersi da pregiudizi negativi, come il fatto che sono antipatici, e snob, e non sanno l’inglese, e ti guardano schifati, e non hanno nessun rispetto per chi non sia parigino, e dopo cinque giorni posso confermare che questi pregiudizi sono tutti veri. O almeno: questa è la mia esperienza, poi non dubito che esista un qualche parigino educato. Magari emigrato. Forse la sessantenne vestita da baldracca rumena che è entrata nel supermercato in monopattino, per esempio, è invece una parigina educata.
La cosa buffa che ho notato è che i francesi criticano gli italiani per la nostra pressappochezza, il nostro essere caciaroni e disordinati, quando mi è sembrato che loro incarnino lo stesso nostro stereotipo, solo che in modo più snob. Non si fermano alle strisce pedonali, come noi, parlano a voce sguaiata, come noi, non sanno l’inglese, come noi, e sputano per terra. E noi non sputiamo per terra, Dio Santo. 
Però si danno un gran da fare per costruirsi l’immagine di persone snob. Ora, io questa cosa di voler essere snob per forza non l’ho mai capita. È vero che io non faccio testo: ho sempre trovato molto più attraenti la timidezza e l’imbranataggine, ma forse perché ho palesi devianze a livello inconscio. Ad ogni modo, è inutile cercare di essere la Kidman quando dentro sei la quarta sorella Kardashian.

Per esempio, una sera io e Ciuffo (il mio compagno di viaggio, quello che ha la testa a forma di Gocciola Pavesi) siamo andati a cena fuori e, non sapendo una parola di francese a parte forse burlesque e per questo dobbiamo ringraziare Cher, sempre sia lodata ora e nei secoli, abbiamo ordinato ciò che ci ispirava di più rustico e parigino, e cioè una concassé e una terrine campagnarde. Bene: ci hanno portato tonno, pomodori e biroldo.
La terza sera abbiamo girato qualche locale nel Marais. E abbiamo notato che i francesi non ballano: io e Ciuffo eravamo gli unici due dementi che si agitavano, vi lascio immaginare il grazioso quadretto. Per forza, erano tutti su Grindr, perché adesso non usa più il baccaglio dal vivo, ora c’è Grindr. E io mi sono ricordato di quando, mesi fa, un mio amico ubriaco mi disse di non cercare l’amore in disco: “cercalo su Grindr”. I francesi lo cercano su Grindr, ma in disco. Comunque, forse i parigini non ballano non tanto perché sono snob, quanto per la musica inascoltabile che mettono: avrebbero bisogno di riscoprire un po’ di trash, qualcosa tipo Moi lolita, o al limite anche… non so, questa:

Io rimango del parere che probabilmente la sessantenne vestita da baldracca rumena che è entrata nel supermercato in monopattino avrebbe ballato. 

Post su Parigi duemilaTredici
     #1 Minuit à Paris
     #2 Liberté, egalité, fraternité

Liberté, egalité, fraternité

– Parigi duemilaTredici –
#2
Non so se sapete che in Francia è in fase di approvazione la legge sul matrimonio per tutti, che regola le unioni tra persone anche dello stesso sesso. Si tratta di un riconoscimento di importanza enorme per la comunità gay, e per una Nazione il cui motto è Liberté, egalité, fraternité era anche l’oretta di una legge del genere.
Durante il secondo giorno del nostro viaggio a Parigi, esattamente giovedì scorso, ci siamo imbattuti casualmente nella protesta dei contestatori a questa legge. Eravamo davanti ai Giardini di Luxembourg, dopo un lunghissimo giro distruttivo per i nostri piedi. Precisamente non so spiegarvi come mai, ma a molti francesi non sta bene che anche gli altri abbiano i loro stessi diritti (non più né meno: gli stessi). 
Né io né il mio compagno di viaggio Ciuffo (sì, esatto, quello con la testa che sembra un mezzo capitello ionico) sapevamo ancora che due giorni dopo, Sabato 6 Aprile, l’odio che quei contestatori dimostravano in una protesta pubblica sarebbe culminato nell’aggressione di Wilfred De Brujin.

Che in questo momento è in queste condizioni:

E a me adesso viene in mente questa cosa: che prima dei Giardini di Luxembourg, prima del Pantheon, prima della Sorbona, prima di St Severin, prima del Quartiere Latino, prima della libreria Shakespeare and Co, prima di tutto questo ma sempre quello stesso giorno, noi eravamo a Notre Dame. Un luogo estremamente denso di fede, e perfino io che sono ateo ho potuto sentire la forte spiritualità emanata da quella cattedrale. E mi ricordo di una bellissima canzone di un film ambientato a Notre Dame: c’è una ragazza, una zingara, che prega Dio affinché faccia ritrovare agli stessi suoi credenti quei principi che in mezzo a tanto odio sembrano aver smarrito.
Forse una parte di quei contestatori e forse chi ha ridotto così questo ragazzo, visto che pare abbiano tanto tempo da perdere, dovrebbero farsi un giro a Notre Dame.

Io non so se puoi sentirmi
e neppure se ci sei.
Né se ti soffermeresti sui pensieri miei.
So che sono una gitana e non oserei di più
che pregare intensamente 
per la gente come me.


Dio fa’ qualcosa
per quelli che
un gesto d’amore non sanno cos’è.
Dio, questa gente 
confida in Te e solo il Tuo Amore salvarli potrà.


Vorrei di più
di ciò che ho.
Vorrei per sempre la gloria e l’onor.
Vorrei l’amor: gioia nel cuor.
Che Dio mi aiuti ogni giorno, per sempre.


Grazie per quanto possiedo già.
Lo so, non è tanto, ma a me basterà.
Prego per gli altri, fuori di qua:
Falli sentire i figli di Dio.
Sono indifesi, ma figli di Dio.

Post su Parigi duemilaTredici
     #1 – Minuit à Paris

Minuit à Paris

– Parigi duemilaTredici – 
#1

Qualcuno che forse legge questo blog mi aveva consigliato di non cercare risposte in Parigi: cerca solo di cogliere i suggerimenti che la città di offre, senza aspettarti di tornare diverso. Parigi, o qualsiasi altra meta all’infuori forse di Londra, non ti cambia, al massimo ti arricchisce.
È in quest’ottica che sono partito. Come al solito, il mio compagno di viaggio è stato Ciuffo, che per chi non lo sapesse è il mio amico dalla simpatica acconciatura che svirgola verso il cielo. Sono partito completamente vuoto e privo di domande, aspettando semplicemente di essere colpito dalle cose. Un po’ come quando scrivo: a me non riesce sedermi e cominciare a battere sui tasti, deve essere l’ispirazione a prendermi. Magari riuscirò a trasmettere questo procedimento anche a voi che mi leggete.
La mia Parigi inizia da Rue du Fauborg-St Denis, il quartiere dove avevamo l’appartamento. A quanto ho capito è un po’ il ghetto della città, e forse avrei dovuto intuirlo quando in metro ho visto una delle Cheetah Girls. Abbiamo trovato l’alloggio su airbnb.it, un sito che vi consiglio perché ti permette di trovare appartamenti anche a poco prezzo. La proprietaria del nostro è una certa Elodie, una tizia che parla solo giapponese e francese, quindi vi lascio immaginare come è stata avvincente la comunicazione con noi, che parliamo solo l’italiano, l’alfabeto farfallino e quel poco di inglese imparato dalla visione di tre stagioni sottotitolate di Pretty Little Liars.
L’appartamento è un buchetto in cui sono presenti una quantità impressionante di cose che non credevo potessero stare in un così piccolo spazio. Ad ogni modo, a noi servivano solo un letto e un bagno, e tutto ciò era ampiamente sufficiente, considerando che abbiamo speso pochissimo.
La giornata prosegue con una marea di chiese, strade, quartieri, posti, monumenti, riferimenti cinematografici che forse poi vi racconterò: vi basti pensare che solo il primo giorno abbiamo fatto tutto Montmartre, il Sacro Cuore, il Moulin Rouge, l’Operà, la Madeleine, fermandoci solo per mangiare una crepe alla nutella con cui mi sono notevolmente insudiciato rinunciando già da subito alla mia risibile dignità.

Non contenti e ancora digiuni, la sera decidiamo di andare a vedere la Tour Eiffel. L’effetto che fa quell’ammasso di ferraglia illuminata di notte è sconvolgente. Per un attimo, riesci a dimenticare quanto quel posto sia turistico. Nella guida c’era scritto che nel 1912 un imbecille – tale Reichelt – ha provato a volare lanciandosi dalla torre con un costume munito di ali. Morì, chiaramente: si spappolò giù, davanti a tutti.

Ma i medici dissero che non fu l’impatto a ucciderlo, bensì un infarto che lo colse durante il volo. Da questo lugubre aneddoto ho capito tre cose: la prima è che le guide turistiche possono essere molto drammatiche; la seconda è che i dottori francesi devono avere un sacco di tempo se si mettono a fare l’autopsia a un corpo caduto da trecento metri di altezza; e la terza è che a volte il cuore ti sputtana prima e peggio di quanto può fare una botta galattica.

Web reputation is the real svalutation

[ articolo che ho pubblicato 
in origine per Maintenant Mensile ]

Sono appena tornato da uno di quei seminari in cui insegnano ai neolaureati le modalità migliori per trovare un lavoro, scrivere un curriculum, fare bella figura ad un colloquio ed altre cose simili. La ragazza che teneva la conferenza ha cercato più volte di terrorizzarmi, e non solo col suo maglione bianco a collo alto onestamente inguardabile, ma più che altro con uno spregiudicato uso di avverbi e congiunzioni (era tutto un Piuttosto che e un Assolutamente sì e un Decisamente no), evidente segno di una formazione da nord Italia industriale.
Ad un certo punto passa a parlare della web reputation. Che sarebbe, in italiano, la reputazione virtuale, ma la ragazza è ormai completamente assorbita dallo stesso meccanismo che lei cerca di spiegare al suo pubblico: un meccanismo per cui ogni termine va inglesizzato, quindi il candidato deve essere smart e il resume deve essere catchy, che per quanto mi riguarda potrebbero essere i nomi dei chihuahua di Rihanna, e invece sono parole che davvero si usano.
La web reputation, spiega la ragazza citando wikipedia e gesticolando in modo tale da attirare l’attenzione sulla sua maglia bianca, è l’insieme dei dati che un’azienda che ti vuole assumere raccoglie su di te cercandoti in rete. Per questo – continua, mentre distogliere lo sguardo dal maglione diventa sempre più difficile – è importante curare la nostra immagine virtuale, a cominciare da quella dei social network a cui siamo iscritti. Dobbiamo essere gentili nelle nostre interazioni, mettere foto carine e aggiornare spesso il profilo. Un po’ come quando navighi in una chat di incontri. Dobbiamo saperci vendere.
“Potrebbe sembrare una mercificazione della persona, ma è così”, conclude la ragazza, dimostrando una volta per tutte di aver bisogno di ripassare il capitolo sulle congiunzioni. Io concludo che, nonostante il suo accento milanese e soprattutto il suo gusto in fatto di maglioni, la ragazza dice cose che hanno un senso – o perlomeno, credo che funzioni davvero così. Magari inconsciamente, ma tutti noi giochiamo a chi si sa vendere meglio, e lo facciamo sempre. In un’epoca in cui si dà tanta importanza ad essere Qualcuno, ci spendiamo per dipingere i nostri barattolini con i colori più trendy (o catchy, o quel che vi pare), ma mi chiedo quanto ci curiamo della qualità del tonno che c’è dentro.
In tutto questo, non ho capito se sul curriculum ci devo scrivere che sono al livello 66 di Candy Crush Saga.


Pensare fa male alla pelle

Pochi giorni fa mia cugina, anni undici, mi ha detto che sono un tipo proprio attivo, perché il giorno prima ero andato in piscina, poi al corso di sceneggiatura e infine alle prove di teatro, cenando con un panino al prosciutto. Ha detto proprio così, “Ale, come sei attivo!”, facendomi immediatamente pensare a quei batteri dello yogurt che favoriscono la naturale regolarità della Marcuzzi. Per un attimo mi sono sentito il responsabile del processo intestinale della Marcuzzi, sì, cara Alessia, se caghi copiosamente ringrazia pure quelli come me.
Come sono attivo, ha detto mia cugina, e il complimento acquista maggior valore se si pensa che lei fa la quinta elementare (con brillanti risultati), pallavolo, violino e conosce tutte le relazioni che intercorrono tra le Winx, non so se mi spiego. Lei, che mi dette grande soddisfazione quando, a 8 anni, scrisse il tema “Descrivi il tuo mito” parlando di Katy Perry. 
In realtà non c’è niente di attivo in me: faccio tutte queste cose per tenermi occupato. Riempio di plastica e sorrisi finti dei pomeriggi che altrimenti sarebbero costruiti sulle lacrime. Ho imparato che quando sto male devo svuotarmi del dolore più che posso, dopodiché posso analizzare scindere sezionare razionalizzare teorizzare capire, insomma: lavorare su di me. E poi basta, fine, si ricomincia, perché è così che funziona.
Stavolta non mi riesce.
Analizzo scindo seziono razionalizzo teorizzo cerco di capire e comunque lavoro, lavoro e continuo a lavorare. Penso – e non è facile navigare nella mente, perché svolti un angolo ed è un attimo che vieni inondato da ricordi, voci e possibilità – ma penso troppo. I miei amici, ognuno a suo modo, dicono che adesso devo smettere di pensare, specialmente di pensare a dove sbaglio e a dove ho colpa. Pensare fa male alla pelle, come dicono gli Eva Mon Amour, pensare troppo fabbrica fantasmi e i fantasmi poi ti perseguitano.

Ecco perché sono attivo, cuginetta: per non pensare.

Tu non puoi credere che la ragione
debba dire a questo cuore come guarire.

L’uccello

Sorrido pensando a quanti di voi siano arrivati qui attratti dal titolo ambiguo. Sorrido un po’ meno pensando a quanto spam riceverò per lo stesso motivo: è un periodo che sono sommerso da commenti del tipo clicca qui e allarga il tuo pene! o anche Foto di Britney hot a questo link o anche vagina, vagina, vagina, clicca e vedrai la vagina! che mi sono sempre domandato come fa la gente a cascarci: voglio dire, se un tizio per strada mi viene incontro urlando BISCOTTI GRATIS a me sorge il dubbio che sia tutto un bluff.
Invece no, l’uccello del titolo è un vero volatile. Stamani mi sono svegliato – se così si può definire il mio cadaverico alzarmi e dirigermi verso la cucina – e ho sentito dei rumori. Tipo un TLOC, ripetuto a intervalli irregolari. Ho guardato la finestra e ho visto che un aggeggio colpire la finestra. Non avendo gli occhiali ed essendo io leggermente tendente al catastrofico, ho pensato subito ad una bomba. Poi, osservando meglio, ho capito che era un uccellino. Aveva le ali nere e il petto bianco e giallo – posso descrivervelo così minuziosamente in quanto ho avuto modo di guadarlo parecchio, visto che se ne stava lì a reiterare il suo sbatacchiare contro la finestra.
Guarda che c’è il vetro, scemo – gli ho fatto io – ed è infrangibile – ho aggiunto, cercando di alleviargli il dolore distruggendo sistematicamente tutte le sue speranze.
Non so se mi conoscete, ma io ho questa pessima abitudine di dover trovare allegorie dietro ogni cosa. Che da una parte mi fornisce inquietanti spunti per il blog, ma dall’altra mi riempie la vita di seghe mentali. Ad ogni modo, non ho potuto fare a meno di chiedermi cosa potevo capire da quell’uccellino tonto che cercava di entrare dalla mia finestra. A cosa potevo associarlo.
All’inizio ho pensato a quello che avrete pensato sicuramente anche voi, ovvero, nell’ordine: Angry Birds, Gli uccelli di Hitchcock, Moana la dà a tutti, La metà oscura di Stephen King, e il quadro che si delineava era chiaro: morte certa entro le sette.
Poi ho capito. Mary Poppins.

( minuto 0:52 )
Ho ragione, vero? O morirò entro le sette?

Siamo fatti della stessa sostanza dell’ansia

Mi laureo tra 16 ore, 31 minuti e 14 secondi, sempre che sia esatto il conto alla rovescia sul computer, che ho impostato io stesso in quanto sono una persona affatto masochista e ansiogena. Okay, lo sono, e tento di rovinarmi l’umore in qualunque modo. Ma non ce n’è affatto motivo, invece! Per esempio, sapete che tempo fa domani? No?, ecco, NEMMENO IO. I siti meterereolorolorologici sono impazziti, tutti mettono un’immaginina diversa. Per uno domani piove a dirotto. Un altro dice che nevica. La mamma di Ciuffo dice che migliora.
Ho fatto una bruttissima presentazione in Power Point, molto in stile anni ’90, sembrava la grafica delle pubblicità dei gioielli che danno sui canali dopo il 10, quelli che nessuno guarda mai a meno che non debba comprarsi degli anelli giganti da cartomante o al limite Ambrogio, che sarebbe un tosaerba automatico e schizofrenico che ti gira per il giardino a potare roba. Comunque adesso ho risistemato la presentazione usando un modello predefinito ed è abbastanza figa.
Quasi quasi adesso vado in piscina, almeno mi scarico da tutta questa tensione negativa. Con un po’ di fortuna potrei anche annegare. Prima dell’esame di maturità un mio amico genio mi consigliò di ascoltare un album per rilassarmi. Questo.

L’uomo che sussurrava ai cruscotti

È cominciato il periodo in cui le persone mi incontrano e iniziano a parlarmi di cose per poi vederle scritte qui sul blog. Non posso negare che mi faccia piacere tutto questo interesse, però dovete sapere che prima di partorire un post io subisco una specie di illuminazione mistica assimilabile agli effetti allucinogeni degli acidi. No mescalina no party, come dice George Clooney quando è strafatto. La scorsa settimana, per esempio, mi avete chiesto:
• perché non racconti sul blog di quanto era difficile trovare Mew nel giochino dei Pokemon?
• ahahah hai visto, abbiamo chiamato la cameriera di questa pizzeria al telefono anche se siamo a dieci metri da lei, raccontalo sul blog!
• guarda, ho fatto alcune tartine quadrate e altre tonde, chissà quanto materiale per il tuo blog!
Ora, a parte l’ultimo punto su cui ero quasi pronto con svariate metafore sull’esistenza, sul resto non mi è venuto in mente niente. Per questo sto per raccontarvi di qualcosa che non c’entra nulla con quello che è capitato a voi: sto per raccontarvi qualcosa che è capitato a me. Purtroppo.
( inutile video musicale fuori contesto
con lo scopo di spezzare il post in due parti )
Una volta ero un ragazzo ingenuo e mi sentivo molto strano. 
Conobbi in piscina un tizio che chiameremo affettuosamente il tizio pazzo. Per la cronaca: non mi capita spesso di fare conoscenze in piscina. Vado apposta in piscina perché non si può socializzare molto, perché se uno parla poi gli va l’acqua in bocca e auspicabilmente affoga. Comunque il tizio pazzo aveva voglia di discorrere e in qualche modo catturò la mia attenzione: ci sono alcune tematiche che mi incuriosiscono troppo e lui lo capì. E mi chiese se avevo voglia di parlarne la sera.
– ti ha chiesto di parlarne stasera?
– sì, amica G, non mi sembra ci sia nulla di male
– mh. E quanti anni ha?
– mah, tipo centomila
– andate a fare un giro, non farlo salire in macchina tua per nessun motivo.
La prima cosa che il tizio pazzo fece quella sera fu salire in macchina mia. Dicendo: “Posso? Ti porterò in un posto pieno di vibrazioni“. Ricordando le parole della mia saggia amica G, iniziai subito a sudare freddo. Tante minuscole amiche G sbucavano dalla mia mente e mi lanciavano avvertimenti tipo Adesso ti squartaaaa o Sei la sua vittima di staseraaaa o Colleziona il pene di chi conosce in piscinaaaa
Mi inventai che dopo dieci minuti avrei dovuto vedere un mio amico, quindi era meglio se andavo. La cosa buffa è che cercò invano di recuperare parlandomi del suo rapporto con gli oggetti. Praticamente lui aderisce a questo pensiero secondo cui le cose hanno un’anima con cui noi dobbiamo interagire. Disse che il motore della sua auto aveva smesso di funzionare da quando lui le aveva lanciato un’imprecazione. Dopodiché accarezzò il cruscotto della mia macchina e gli chiese come andava la vita.
Da quella volta sono cambiato: sono ancora un pochetto ingenuo, forse. Ma mi sento molto meno strano.