La mia visione del mondo, raccontata tra parentesi.

Considerazioni sull’originalità indotte da una bionda piccola

Qualche sera fa mi trovavo in birreria in compagnia di due amiche e di una creatura piuttosto ubriaca che cercava di attentare alle nostre preziose virtù. Dio, i bisessuali credono di poter fare quello che vogliono solo perché hanno letto su wikiquote quella frase di Woody Allen che li loda. NOTIZIONA: guardate che se siete brutti e importuni e puzzate di aceto non ve la diamo lo stesso, eh. E insomma ero impegnato a reprimere l’idea di ucciderlo servendomi di uno spazzolino elettrico Oral B Trezone che stando alla pubblicità è più pericoloso di un fucile anticarro, pertanto ho avuto modo di fare qualche riflessione sull’originalità.

In particolare, pensavo di essermi sempre ritenuto una persona originale. Non solo per il fatto che il mio portacellulare è un calzino spaiato o che scrivo il sì-affermazione con l’accento o che so fare l’imitazione di Topolino che imita Pippo, ma anche per altre cose magari meno gravi dal punto di vista clinico. Questa cosa di essere originale mi è sempre piaciuta e ha sempre contribuito ad aumentare la mia autostima. A ventitré anni, tuttavia, è il momento di metterla in discussione.

Per due motivi: per cominciare essere originali non è tutto, come mi ha detto una volta un tizio. Il che è vero, però c’è anche da dire che quel tizio era di una noia mortale. Il che mi fa pensare che quelli che criticano l’originalità siano le persone banali.

Ma soprattutto un secondo pensiero ha minato la mia consapevolezza: non sarà mica che io mi vedo originale e invece non lo sono affatto? Per spiegarvi questo concetto mi servirò di un simpatico aneddoto, che riguarda un tipo con cui sono uscito diverso tempo fa – sì, lo so che tutti i miei aneddoti riguardano persone con cui esco, tipo l’assassino di Gello o il ragazzo coi raggi o Mery la meretrice, ma non è colpa mia se la metà di quelli che incontro sono casi umani.

Insomma dopo un appuntamento che -per fortuna- era giunto al termine, lo stavo riportando a casa con la mia macchina e mi informavo sulla strada da compiere mentre guidavo. “Qui vado a dritto, giusto?” “Sì sì, qui a dritto”. Tutto ad un tratto grida “NO A DESTRA!!!” facendomi inchiodare in mezzo all’incrocio, e poi “AHAHAH scherzavo era a dritto AHAHAH”.
Ora, a parte il fatto che l’ho praticamente scaraventato fuori dalla macchina, avete capito cosa intendo? Magari anche lui si sente originale, mentre invece è solo idiota. E se io fossi come lui? Se anch’io stessi scambiando l’originalità con quella che è semplice sindrome di deterioramento demenziale?

Quella sera, in birreria, pensavo a queste cose e vi dirò: non sono arrivato ad una risposta definitiva, forse perché io sono così, originale o demente che sia, ma sono riuscito a compilare un sottobicchiere scrivibile che adesso troverete là, appeso ad uno specchio.

  
E, come vedete, ho scritto il sì-affermazione con l’accento.

La linea della maturità sentimentale

Essere dei single paranoici comporta necessariamente una cosa: che a un certo punto dell’esistenza ci si trova davanti a quella linea di confine dopo la quale – lo dico in maniera sintetica, in parole povere ma dolci, proprio come farebbe un francese – non te ne frega più un emerito cazzo.
È la linea di confine dopo la quale tu sei definitivamente certo che ti ami e che metti al primo posto soltanto te stesso. E solo dopo di te vengono la famiglia, gli amici, il lavoro e le altre cose belle che la vita ci riserva, come i Mikado o i saldi da H&M. È la linea che pone fine alla tua ricerca ossessiva dell’amore, e che ti fa dire una volta per tutte, con una fermezza solenne, la fatidica frase: ME NE STRASBATTO LA MINCHIA. 
Certo, non tutti oltrepassano questa linea. C’è chi prima di arrivarci incorre nella disgrazia di fidanzarsi, per esempio, perdendo così l’opportunità di digievolversi in quello che è il pokemon più raro di tutti, ovvero l’essere umano sentimentalmente maturo. Ma gli ostacoli per diventarlo sono molteplici: per citarne alcuni a caso, menzionerei l’accontentarsi del primo che passa, o anche il ritornare con l’ex, sì sì, proprio l’ex che ti ha cornificato reiterate volte e che ti ha trattato malissimo e che no, non cambierà per te, no, mai. Tuttavia, alcune creature particolarmente sfigate non cederanno a tali tentazioni e potranno vantarsi di essere, udite udite, sentimentalmente mature. 
Sole, ma sentimentalmente mature.
O anche: sentimentalmente mature, ma sole. (Spero abbiate gradito la differenza tra i due accostamenti, ci ho ragionato mezz’ora su come rendere più efficace la proposizione)
Ora, dire che una persona matura non soffre la solitudine, secondo me, è eccessivo e utopistico. Dipende da persona a persona ovviamente, ma non è che uno è totalmente felice, da solo. Persino il Dr House sembra un vecchio orso brontolone però intanto se la fa con la Caddy e chiacchiera con il nero, con quello bono e con la tizia che poi va a fare Once upon a time e insomma madonna che casino questi telefilm. Diciamo che una persona matura combatte la solitudine per mezzo di svariate tecniche, come nutrire i propri diciotto gatti, o aprire un blog, o anche infilzare con gli stuzzicadenti la bambola voodoo di Barbara di Paint your life. Insomma, uno è single, ed è anche abbastanza maturo, ed è più o meno sereno in questa situazione. Però non è che è proprio proprio completamente felice. A volte capita che si possa sentire un briciolino, un pochino pochissimo, leggerissimamente, solo.

Come me ora, ecco.

L’intesa dei single

Arriva quel momento, nella vita di un single, in cui ti rendi conto che è passato un periodo di tempo consistente dall’ultima volta che qualcuno ha pensato anche solo vagamente all’eventualità che tu potresti, forse e sempre che i vostri profili astrali siano compatibili, essere il suo partner. 
Quando lo realizzi di solito stai facendo cose come – esempio puramente casuale non necessariamente riferito al mio vissuto – aggiungere utenti di twitter in base al numero di addominali che si vedono nella fotina, ma sei costretto ad interrompere questa vitale attività per iniziare ad enucleare a te stesso tutta una serie di gigantesche paturnie che successivamente sentirai di dover condividere con qualcuno.
Qualcuno, appunto. Chi è il prescelto che deve essere affogato nelle mie paranoie? Di solito io scelgo di ammorbare Effe, che è una mia amica con cui ho in comune diverse cose, come il sarcasmo attraverso cui filtriamo la vita, la passione per Just Dance che forse era meglio non scrivere sul blog, l’odio verso la moda del leopardato e infine il fatto di essere entrambi single.
Ora affermerò una cosa molto impopolare che tutti cercheranno di smentire (e io li lascerò smentire, tanto che me ne frega), e cioè che una persona fidanzata ragiona in una maniera diversa di come ragionerebbe/ragionava da single. Non è un’offesa, tranquilli, è solo una constatazione. Così come questo seduto accanto a me in biblioteca: puzza. Ma non è un’offesa, è solo una constatazione, una bruttissima constatazione che i miei ricettori olfattivi avrebbero preferito non constatare.
Ho una teoria: che quando ti fidanzi, oltre a tutti quegli odiosi effetti collaterali tipo che diventi monotematico, che inizia a piacerti Baglioni e che sembri psicolabile, ti si azzera anche quella parte di memoria dove stanno le tue sensazioni da single. Perché se un fidanzato si ricordasse davvero di quando era single, non se ne uscirebbe con frasi come L’amore arriva quando meno te lo aspetti (se è della fazione Lo cerchi troppo, perché poi c’è anche la fazione Non lo cerchi abbastanza, i cui membri di solito ti dicono Se non lo cerchi, l’amore, come fai a trovarlo? o anche Tu hai paura di impegnarti! E poi c’è la fazione Tromba, per la quale il sesso è la risposta ad ogni problema, il che ti fa intuire anche come mai la gente si fidanza. Capite bene che uno non sa più con chi sfogarsi: qualunque cosa faccia sbaglia). 
( Parentesi. Qualche settimana fa in discoteca un tizio fidanzato si avvicina e, udite udite: senza che io gli avessi chiesto niente, mi fa “Tredici, se cerchi l’amore, l’amore non arriva. Non farlo”. Io ho sbattuto le palpebre ad una frequenza che nel linguaggio dello sbattimento di palpebre si traduce più o meno con MA CHE MINCHIETTA VUOI e ho risposto buttando giù il mio Invisibile Imbevibile alla Fragola. )
Cari fidanzati, se volete interagire intelligentemente con un single, dovete prendere esempio dalla mia amica Giò, che ogni tanto parte e dice Tredici, io proprio non capisco come mai sei single: sei divertente, sei intelligente, sei carino, sei interessante, hai un sacco di passioni, e tutta un’altra serie di complimenti dalla dubbia veridicità che la prossima volta mi appunterò per riportarli fedelmente nella mia descrizione sulla chat.
Ma a parte Giò e una cerchia ristrettissima di individui fidanzati con cui posso decidere di parlare di me, è ovvio che io preferisca Effe. Perché tra single ci capiamo subito. Perché abbiamo bisogno di sprecare ore della nostra vita a riempirci di stronzate sul motivo della nostra condizione, a dirci quelle cose inutili e sbagliate tipo Sei troppo per lui o Non ti vuole perché lo spaventi, a raccontarci che un tempo in Tibet eri più interessante quante più collanine avevi addosso (e in quel caso ci sarebbe bastato svaligiare il reparto accessori di H&M), a sputtanare tutti i vari oroscopi che è dall’alba dei tempi che prevedono incontri romantici per Acquari e Capricorni che io a quest’ora sarei sposato per tre religioni diverse, a linkarci canzoni di Marina Rei o Carmen Consoli che rispecchiano il nostro stato d’animo, a rassicurarci da soli che prima o poi arriva. 

Critica della ragion stronza

Siccome non bastano le serie tv americane, le parodie su Harry Potter e tutto il sistema gerarchico adolescenziale degli studenti delle medie a rendere complicata la vita degli sfigati, adesso ci si mettono pure i blogger. Ora che questa moda idiota dell’essere sfigato ha preso piede su tutti i social network 
( Alcuni esempi: “Non mi è suonata la sveglia, che sfiga!”, 
“Un piccione mi ha cacato sul giacchetto nuovo, ahahahah”, 
“Mi hanno licenziato e mia sorella si droga, YEAH” ) 
ne sta nascendo un’altra ancora più terribile: criticare e snobbare quelli che fanno gli sfigati. Posso dire che, onestamente, avete tutti strafracassato la minchia?
Vi svelerò un segreto: prendere per il culo gli sfigati, sia direttamente che di riflesso, è una cosa estremamente facile. Bisogna che vi evolviate, blogger e twitteri, e lo dico per voi, non vorrei che vi cali il numero di Mi piace, cosa che vi porterebbe a un crollo nervoso dovuto alla vostra dipendenza da feedback).
Oggi ho il dente avvelenato (strano! che buffo! qual novità!) e vorrei sfruttarlo per avere le palle di prendermela con qualcuno di più grosso: gli stronzi. Partiamo dal postulato base:
* Essere stronzi non è bello *
Chiaro? La parola stessa ha un’accezione negativa che non è stata impressa a caso. Essere stronzi significa non rispettare gli altri, significa invadere la loro sfera di libertà, significa fare male alle persone. Fare male alle persone non è bello, a meno che le persone non siano quelli in coda prima di te alle poste o gli sceneggiatori di Un posto al sole, nel qual caso i carnefici avrebbero un mio parziale appoggio.
Ma attenzione: la mia non vuole essere una critica all’egoismo, alla competizione o al provare odio, che ritengo tutte cose sane, in quantità moderate. Io me la prendo soprattutto con chi forza la sua personalità ad essere stronza. Chi crede che si possa scegliere di esserlo. Chi si vanta di esserlo. Nessuno ne parla mai, ma c’è questa moda di definirsi stronzi, come se fosse una cosa figa di cui andare fieri. Ecco, questo sì che è idiota. È come vantarsi di avere la clamidia, o di mangiare le proprie caccole dopo averle appallottolate. Ho le emorroidi, scrivi questo sulla tua bio, no? Non sarà poi peggio che scrivere di essere stronzi.
Essere stronzi non è bello, e mi scuso per l’arroganza che ho usato nello scrivere questo post, ma secondo me va detto, ogni tanto. Che qui ce la prendiamo con gli sfigati che alla fine non fanno niente di male se non fornire spunti per nuovi fumetti della DC Comics, e mai con quelli che se lo meritano.
– Sono stronzo, eheheh.
– Complimenti. Vuoi un applauso?
(cit. la mia vita vera,
sì perché ne ho una, giuro)

Quando sono un po’ triste

Il mio lieve pessimismo non mi dispiace. Ho sempre pensato che le persone negative riescano a vedere il mondo in una maniera che non è peggiore, è semplicemente diversa, e secondo me c’è tanto bisogno di cogliere tutte le sfumature della realtà. Non solo gli arcobaleni e i mini pony, per dire. Una volta ho sentito qualcuno che diceva che l’ottimista è l’equivalente dell’idiota, e anche se questa persona è probabilmente una di quelle frustrate che fanno cose tipo agitare la Ferrarelle per averla meno frizzante, devo ammettere che ho pensato a tutti quelli che si definiscono ottimisti e solari a The Club, e non l’ho trovata così fuori luogo.

Nonostante abbia a cuore questo lato del mio carattere facilmente deprimibile, non mi piace essere triste. A nessuno piace essere triste, credo, eccetto forse ad Adele, che era triste, ha scritto delle canzoni sulla sua tristezza, e adesso è ricca. Tuttavia, il mio organismo da ventitreenne sfigato è cresciuto abbastanza da aver sviluppato alcuni strategici meccanismi di difesa da attuare quando sono un po’ triste.

Mangiare, per esempio. Ultimamente vado di biscotti, ma c’è stato un periodo che ho fatto quasi indigestione di philadelphia. Poi girava voce che Kaori fosse morta, o che avesse fatto X-men 2, che forse è anche peggio, e mi sono dato un contegno.

Poi lo shopping. Dio, che soddisfazione, il comprare, lo spendere, il sentirsi parte di un crudele sistema consumistico. È difficile da fare quando non ho molti soldi, cioè sempre, infatti tento di rimediare con barbatrucchi poco producenti, chiamati Ehi Sara, andiamo alla Gardenia a provarci tutti i profumi? oppure anche Dai Ciuffo, giochiamo a provarci montgomery che non ci possiamo permettere! ma a lungo andare diventa un’attività stancante. Senza contare che il tuo naso va in overdose da essenze.

Allora penso alle piccole cose che vanno bene. Che poi non è facile pensare alle piccole cose che vanno bene quando ci sono le grandi che vanno male, vorrei dire. È molto più facile pensare alle piccole cose che vanno bene quando anche le grandi vanno bene, mi sa. Comunque, cerco di concentrarmi sulle piccole cose, che nel mio caso sono che iniziano le prove di teatro, che ho uno scaldatazza usb per quando arriverà il freddo, che forse forse Kurt e Blaine si lasciano ed era ora, che tra un mese vedrò Florence and The Machine dal vivo, che accanto a me ho una scatola piena di befanini al cioccolato.

Forse non sono così pessimista, no?

Where there is desire
There is gonna be a flame
Where there is a flame
Someone’s bound to get burned
But just because it burns
Doesn’t mean you’re gonna die
You’ve gotta get up and try try try
Gotta get up and try try try
You gotta get up and try try try

Il metaforizzatore

E insomma ero lì davanti al mio progetto di Costruzione di Interfacce che cercavo di capire che coordinate deve avere un quadrato se voglio che sia ritagliato da un rettangolo di cui conosco solo il centro. Molto spesso in informatica uno schermo non basta: se vuoi capirci qualcosa, devi ricorrere a carta e penna e iniziare a disegnare, come faceva Pitagora per calcolare l’ipotenusa o i terroristi di al-Qaida per decidere come dirottare gli aerei.
Sono lì di fronte al mio disegnino quando mi accorgo che ho sbagliato un punto. Ohibò, ho bisogno della gomma per cancellare. La cerco nell’astuccio, ma non la trovo. Può essere che l’ho lasciata a casa, oppure l’ho persa, ma ad ogni modo alcune immagini mi attraversano la mente come tante, velocissime illuminazioni. Flash: non posso cancellare. 
Flash: quel che è fatto è fatto. 
Flash: le mie azioni sono indelebili. 
Flash: se non hai una gomma non puoi tornare indietro.
ALLARME TRIP! ALLARME TRIP! ALLARME TRIP!
Conclusione letale: la vita è un disegno fatto quando non hai la gomma nell’astuccio.
Ora, non ci ho messo molto tempo a capire che questa è sicuramente la più brutta metafora che sia mai stata enucleata da una mente umana. Ma capite, io non lo faccio apposta. Semplicemente le cose mi accadono come accadono a tutti ma io ci vedo dietro una specie di insegnamento da cogliere. È un po’ come essere una versione non retribuita di Fabio Volo.
A volte tiro fuori delle vere e proprie perle: l’altra sera mi mettevo le lenti a contatto davanti allo specchio sicché è scattata l’epifania che se ti avvicini a te stesso puoi agire in maniera più precisa. Se volete creare una bella metafora, mettetevi davanti a uno specchio, che favorisce il parto di tutte quelle cose che riguardano il sé stessi, credo facciano così anche quelli che scrivono le serie di Disney Channel. 
Comunque. Forse non creo delle belle allegorie, ma bisogna dire che sono prolifico. Forse potrei aprirci un’attività, e fare il metaforizzatore. Tanto, voglio dire, il mondo è pieno di mestieri nuovi di cui non si conosce nemmeno il nome. Che lavoro fa Mara Maionchi?, per dire. Nel frattempo torno al mio progetto di Costruzione di Interfacce, ma sappiate che se volete una metafora, ai miei lettori faccio uno sconto.

Tredici’s Anatomy

Ci sono quei giorni in cui ti svegli e tutto parte come se fossi in una puntata di Grey’s Anatomy. No, non a letto con Patrick Dempsey, intendo con la vocina che ti riempie di seghe mentali. Mentre tu fai quelle cose che col sottofondo di Paolo Nutini al pianoforte appaiono estremamente poetiche (come bestemmiare nello spegnere la sveglia, o togliere quell’odiosa pellicola di panna che si forma sul latte dopo che lo hai riscaldato al microonde) la vocina di quella deficiente di Meredith Grey parte col porre drammatici interrogativi sull’esistenza, che di solito trovano la loro massima realizzazione nella costruzione di metafore riguardanti le linee di confine e il barometro dei nostri desideri.
E non serve a niente ripetersi che gli sceneggiatori di Grey’s Anatomy avrebbero evitato di imparanoiare milioni di telespettatori se solo avessero avuto uno psicoterapeuta migliore, e non serve a niente nemmeno ripetersi che gli sceneggiatori di Grey’s Anatomy sono i principali responsabili del fatto che tutti nel mondo vogliano fare medicina; non serve a niente, perché ormai quelle seghe mentali ti sono penetrate nel cervello, dove risiederanno per tutta la giornata.
E insomma stamani mi sono svegliato e la paranoia era che forse ho una scala del gusto diversa da quella della maggior parte della gente. E ci sono arrivato tramite questo intelligentissimo ragionamento che provo a spiegarvi tramite rappresentazione logica. Che c’ho preso anche un bel voto, a Logica.
E poi finisce l’episodio, è notte e probabilmente piove, e la vocina torna a dare tutte le risposte con una saccenza che cerca di mascherare con pause tattiche e un ritmo da regina del dramma. Nella vita vera non funziona così. Le risposte non arrivano sempre di notte quando piove ed è tutto perfettamente romantico. Nella vita vera le risposte arrivano più o meno velocemente, a volte non arrivano e comunque scelgono i momenti più impensabili.
Per esempio, oggi avevo appena finito di pranzare a mensa. Avevo ancora quel terribile odore di pesce nelle narici, quando sento la vocina. Non la vocina di Meredith però. Era la “vocina”, giusto un poco più profonda, del mio amico U, che si mette a cantare Crash di Immanuel Casto. E che poi ripete quello che mi aveva detto mesi fa, quando le cose andavano molto meglio per tutti:
Ale, adesso fregatene.
Mettiti il tuo burro di cacao bio
e goditi la vita.
Stasera carbonara da me. Chi viene?

Lo Stato di Intellettualoidolandia

(ovvero una specie di apologia pop senza grosse ambizioni)

Dedicato alla T-shirt di Andy Warhol 
che sto indossando proprio ora 
Lo Stato di Intellettualoidolandia riconosce come lingua ufficiale il francese. Certo, perché dire pute è più intelligente che dire puttana, e dire merde è effettivamente molto più colto che dire merde. Nel caso non si percepisca il sarcasmo: si scrive nel solito modo, vedete, merde, francese, merde, italiano. Cambia solo la pronuncia con l’erre moscia che rende la parola semplicemente più antisesso.
Lo Stato di Intellettualoidolandia si dichiara di mente aperta tuttavia critica e biasima e non tollera una serie pressoché infinita di cose, animali, città, persone, personaggi e idee tra cui si annoverano (il seguente elenco è in ordine casuale tuttavia ha una certa pretesa estetica): Simona Ventura, i capelli biondi, i tacchi di Lady Gaga, la facoltà di Scienze delle Comunicazioni, i Green Day, i tatuaggi a stella, tutti i musical eccetto The Rocky Horror Picture Show, i costumi di Lady Gaga, il cinema italiano, Pompo nelle casse, le acconciature di Lady Gaga, i centri estetici, la frutta che non è di stagione (ah no scusate questa è mia nonna), la musica di Lady Gaga, gli avverbi che finiscono in mente, le cellule dell’epidermide di Lady Gaga, la destra, la sinistra, il Movimento 5 Stelle, il 75% d’acqua di cui è costituita Lady Gaga, la sessuofobia, il calcio di serie A, il Big Mac, Parigi di giorno, Harry Potter, le Lucky Strikes, i concorsi di bellezza, facebook, i Cesaroni e l’aperitivo con lo Spritz.
Lo Stato di Intellettualoidolandia professa l’ateismo o al massimo una sorta di cattolicesimo alternativo ma soprattutto crede nella religione dell’originalità, pertanto gli abitanti dello Stato di Intellettualoidolandia vivono nella costante costruzione di un’immagine originale e diversa da tutti gli altri senza accorgersi che così facendo diventano tutti un po’ simili o, per meglio dire, tutti un po’ uguali.

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[ pubblicato originariamente su Maintenant Mensile,
qui il link ]

Fuck you Licia

Non odio l’amore, ci mancherebbe. Cioè, forse un po’ sì, forse lo odio quel minimo affinché quando lo incontrerò gli chieda di scambiare due paroline in privato, ma non è che lo odio totalmente
Sono gli innamorati che non sopporto.
Che poi non è vero nemmeno questo. Per esempio c’è una coppia di miei amici che è molto buffa e si prende sempre molto in giro quando è in pubblico e non stanno appiccicatissimi l’un l’altro. Poi certo, quando li vedo che si sbaciucchiano è impossibile evitare di filtrare la visuale e sostituirla con l’immagine di me che aziono il detonatore e le loro teste che saltano in aria. Tra l’altro riesco perfettamente a riprodurre il tessuto epiteliale del collo che si sfalda, i legamenti che si spezzano e i brandelli di carne che volano ovunque in un’esplosione di organi e sangue.
Poi però ci sono le coppie che non sono semplicemente melense. Sono proprio malate. Ma non intendo che sono patetiche o ridicole o troppo smielose: intendo malate, nel senso patologico del termine, intendo che non sono sane, che quella che stanno vivendo non è una relazione, ma una specie di rapporto simbiotico, in cui i due si succhiano le energie l’un l’altro. Sono dipendenti l’uno dall’altra. Al contrario di quello che dicono i link di facebook o i libri di Twilight, la dipendenza affettiva non è una cosa sana. Significa che tu non sei in grado di stare bene da solo.
Guardate loro, per esempio:

Kiss me Licia è il telefilm più irreale e più diseducativo del mondo. Ti mostra esattamente quello che non succede. Ti mostra lei che è piena di aspettative nei confronti di lui, ti mostra lei che ricerca continuamente conferme del suo affetto – tra parentesi in una maniera infantile e assurdamente odiosa – e soprattutto ti mostra che negli anni ’80 i telefoni avevano bisogno di un pesante restyling del design. 
Tuttavia, non ti mostra che di lì a qualche anno – non gliene do più di due – Mirko sarà un frustrato, tutte le energie che poteva avere gli saranno state consumate dalle continue, pressanti e pallosissime richieste di attenzioni di Licia, e se la coppia non si dividerà sarà soltanto per abitudine, perché non ci sarà più alcun amore a tenerli uniti.
Licia, fottiti; e cresci, per Dio. E fagli quelle dannatissime fettine panate.