La mia visione del mondo, raccontata tra parentesi.

Gino

Anche se il titolo è un nome maschile che potrebbe farvi pensare che io abbia trovato un uomo buono, onesto, che mi voglia bene e auspicabilmente con un animo di venti centimetri, devo precisare subito che Gino non è il mio nuovo fidanzato. Anche perché ultimamente gli unici uomini che hanno a che fare con me sono mio papà ed Enrico Mentana, che è praticamente ovunque e direi che è il caso di rivedere le regole del prepensionamento.
Gino era il mio professore di matematica del liceo. Ora, la cosa straordinaria del mio cervello è che di tutte le informazioni che quell’uomo cercava di trasmettermi, io mi ricordo solo dei particolari più idioti. Tra parentesi, questa è una cosa che mi succede praticamente con tutto: guardo centinaia di film e leggo svariati libri e non ricordo niente, ma il balletto di Asereje e il testo di Barbie girl li so a memoria
Comunque, dicevo di Gino. Uno dei migliori insegnanti che abbia mai avuto, perché non era solo bravo nella sua materia, ma sapeva anche spiegarla. E sono convinto che se qualche anno fa mi aveste chiesto di farvi uno studio di funzione avrei saputo benissimo appellarmi ai suoi insegnamenti e partire a disegnare un grafico; invece, oggi, riesco a ricordarmi solo poche cose. Tra cui questa storiella, che mi accingo a riproporre.
LA  STORIELLA  DI  GINO
(stacchetto musicale,
direi che Barbie girl può andare)
Ci sono due fratellini, Tizio e Caio. Tizio è molto intelligente e ha una grande memoria. Caio no. Un bel giorno la mamma di Tizio e Caio dà loro delle commissioni: dice a ciascuno di andare a comprare dieci oggetti. Tizio, essendo molto intelligente e avendo una grande memoria, parte subito. Caio, invece, prende un foglietto e si appunta tutto. Come finisce la storiella? Che Tizio torna con nove degli oggetti da comprare, mentre Caio con tutti e dieci.
Tizio è stato indubbiamente molto bravo, perché si è ricordato di nove elementi della lista. Ma nessuno gli vietava di scriversi dei promemoria, come ha fatto Caio, che li ha riportati tutti. Quindi pochi cristi, gente, Caio ha stravinto. Tizio sarà anche un genio, ma Caio, cioè quello scemo e senza talento, a Tizio gli ha spaccato il culo.
Gino ci raccontò questa subdola storiella per convincerci a scrivere il compito sul diario (avevamo la tendenza a, ehm, dimenticarci di farlo), io ci vedo anche qualcosa di più: che la perseveranza, la volontà, l’impegno, la tecnica, l’applicarsi contano di più dell’intelligenza e del talento. 
Fine. Grazie Gino, a volte è giusto ricordarlo. Secondo stacchetto.

Sesto potere

Ho scoperto una cosa: la vita, senza facebook, è possibile. Anzi, no, questa la sapevamo tutti. Ho scoperto una seconda cosa, ancora più elettrizzante: la vita, senza facebook, è migliore. E mi sento di aggiungere che si vive bene anche senza twitter, instagram, tumblr, blog, youtube e perfino la colonnina a destra di Repubblica.it.
Internet ci mette ansia, e non lo sappiamo neppure. Non lo vogliamo ammettere, ma ci sentiamo come costretti ad apparire virtualmente. Voi sicuramente non lo ammetterete mai, perché siete dei falsi farisei e nei commenti vi sperticherete in articolate osservazioni su come io sia tonto ad averci messo così tanto a capirlo. Vedete, c’è un problema. Che lo scopo di questo blog, oltre a essere il catalizzatore delle mie stronzate che altrimenti andrebbero perdute nel mondo delle stronzate, oltre anche ad essere una valvola di evasione e sfogo delle paturnie che il mio animo negativo e irreversibilmente malato produce in maniera naturale, lo scopo di questo blog è anche cercare di rendersi visibili al malaugurato editore anonimo che, metti caso che il giorno in cui mi visita stia particolarmente male, potrebbe propormi una collaborazione. 
Questo spiega anche tutto il resto delle diavolerie virtuali collegate al blog: la pagina facebook, l’account twitter, quello su instagram, i vari profili sparsi nel mondo dei social network. Ma in realtà odio tutte queste modalità di proposta dei cazzi miei. Questo doversi imporre per essere visibili. Vorrei che le persone scoprissero i cazzi miei perché mi vogliono bene, perché interessati a sapere come sto, non per uno spirito voyeuristico che li porta al blog. O meglio, vorrei che non fosse sottinteso che tutto quello che mi capita fosse scritto sul blog, perché non è così: anzi, io riporto solo una piccolissima parte della mia vita e dei miei pensieri, e anche quella che riporto la narrativizzo per renderla più divertente.
In questi giorni, per vari motivi, ho sentito il bisogno di allontanarmi da Internet. Non sopportavo più l’ansia, la mania di controllo, l’onnipresente necessità di apparire e, soprattutto, la paura di scoprire qualcosa. E allora sono uscito. Sono andato in biblioteche in cui non c’è la connessione. La biblioteca statale di Lucca è un luogo meraviglioso, poi. Uno stanzone enorme, e insieme a me solo altre quattro persone, e migliaia di libri antichi. In questi giorni ho scritto, ho letto, ho ascoltato, ho nuotato, ho pedalato. Sono stato al concerto dei Baustelle, ho partecipato a un seminario sul cinema, ho fatto cose. Okay, tutto il tempo guadagnato l’ho poi perso a giocare, infatti vorrei indire una giornata di preghiera cumulativa affinché Dio punisca corporalmente i creatori di Candy Crush Saga.
Ho deciso che ho bisogno di dare il giusto peso al mondo virtuale. Non posso disiscrivermi del tutto da tutto, come ho pensato in questi giorni, perché alla fine mi è comodo, per i motivi che ho scritto sopra, e poi mi piace. Ma l’altro mondo non mi crea ansie, e un cervello libero da brutti pensieri è quello di cui ho bisogno ora. Insieme alla completa disintegrazione degli autori di Candy Crush Saga.

Il Giocondo

– Parigi duemilaTredici –
#4
La piramide di vetro del Louvre in mezzo a tutti questi palazzi è anacronistica. 
Hai sentito che parola ho usato, Ale? ‘Anacronistica’!
Lo sguardo soddisfatto di Ciuffo dopo aver fatto sfoggio delle sue trovate lessicali è straordinario. Io e il mio amico (così apostrofato per via dei suoi capelli che gli stilizzano un’ondina sulla testa) abbiamo scelto il terzo giorno per la visita al Museo – e anche ad una caterva di altre cose che non avranno spazio in questi post su Parigi.

Nel Louvre ci sono così tante cose da vedere che quelle interessanti perdono quasi valore, in tutta quella marea di possibilità. Per esempio, davanti alla Gioconda c’era così tanta gente che a me ha interessato fotografare tutta quella calca di umanità davanti a un quadro più che il quadro stesso, che tanto abbiamo già visto tutti sui libri e in diversi spot della Tim
La Venere di Milo sarebbe la statua di Afrodite che cerca di fare qualcosa, ma non sappiamo cosa in quanto non ha più nessuna delle braccia: così sembra che sia lì, in posa, a farsi guardare, ed è effettivamente bellissima. La dimostrazione del fatto che a volte le cose bellissime rimangono bellissime anche quando si rompono, e non dobbiamo cambiare idea sulla loro bellezza solo perché si rompono. Ma non lo so se mi sono spiegato.
Forse è meglio raccontare del giorno dopo, quando siamo andati a vedere l’Arco di Trionfo fatto costruire da Napoleone, e forse è carino dire che abbiamo girottolato attorno all’Arco. Cantando Waterloo.

Tutti quanti voglion far gli snob

– Parigi duemilaTredici –
#3
I parigini sono creature strane. Sono sommersi da pregiudizi negativi, come il fatto che sono antipatici, e snob, e non sanno l’inglese, e ti guardano schifati, e non hanno nessun rispetto per chi non sia parigino, e dopo cinque giorni posso confermare che questi pregiudizi sono tutti veri. O almeno: questa è la mia esperienza, poi non dubito che esista un qualche parigino educato. Magari emigrato. Forse la sessantenne vestita da baldracca rumena che è entrata nel supermercato in monopattino, per esempio, è invece una parigina educata.
La cosa buffa che ho notato è che i francesi criticano gli italiani per la nostra pressappochezza, il nostro essere caciaroni e disordinati, quando mi è sembrato che loro incarnino lo stesso nostro stereotipo, solo che in modo più snob. Non si fermano alle strisce pedonali, come noi, parlano a voce sguaiata, come noi, non sanno l’inglese, come noi, e sputano per terra. E noi non sputiamo per terra, Dio Santo. 
Però si danno un gran da fare per costruirsi l’immagine di persone snob. Ora, io questa cosa di voler essere snob per forza non l’ho mai capita. È vero che io non faccio testo: ho sempre trovato molto più attraenti la timidezza e l’imbranataggine, ma forse perché ho palesi devianze a livello inconscio. Ad ogni modo, è inutile cercare di essere la Kidman quando dentro sei la quarta sorella Kardashian.

Per esempio, una sera io e Ciuffo (il mio compagno di viaggio, quello che ha la testa a forma di Gocciola Pavesi) siamo andati a cena fuori e, non sapendo una parola di francese a parte forse burlesque e per questo dobbiamo ringraziare Cher, sempre sia lodata ora e nei secoli, abbiamo ordinato ciò che ci ispirava di più rustico e parigino, e cioè una concassé e una terrine campagnarde. Bene: ci hanno portato tonno, pomodori e biroldo.
La terza sera abbiamo girato qualche locale nel Marais. E abbiamo notato che i francesi non ballano: io e Ciuffo eravamo gli unici due dementi che si agitavano, vi lascio immaginare il grazioso quadretto. Per forza, erano tutti su Grindr, perché adesso non usa più il baccaglio dal vivo, ora c’è Grindr. E io mi sono ricordato di quando, mesi fa, un mio amico ubriaco mi disse di non cercare l’amore in disco: “cercalo su Grindr”. I francesi lo cercano su Grindr, ma in disco. Comunque, forse i parigini non ballano non tanto perché sono snob, quanto per la musica inascoltabile che mettono: avrebbero bisogno di riscoprire un po’ di trash, qualcosa tipo Moi lolita, o al limite anche… non so, questa:

Io rimango del parere che probabilmente la sessantenne vestita da baldracca rumena che è entrata nel supermercato in monopattino avrebbe ballato. 

Post su Parigi duemilaTredici
     #1 Minuit à Paris
     #2 Liberté, egalité, fraternité

Liberté, egalité, fraternité

– Parigi duemilaTredici –
#2
Non so se sapete che in Francia è in fase di approvazione la legge sul matrimonio per tutti, che regola le unioni tra persone anche dello stesso sesso. Si tratta di un riconoscimento di importanza enorme per la comunità gay, e per una Nazione il cui motto è Liberté, egalité, fraternité era anche l’oretta di una legge del genere.
Durante il secondo giorno del nostro viaggio a Parigi, esattamente giovedì scorso, ci siamo imbattuti casualmente nella protesta dei contestatori a questa legge. Eravamo davanti ai Giardini di Luxembourg, dopo un lunghissimo giro distruttivo per i nostri piedi. Precisamente non so spiegarvi come mai, ma a molti francesi non sta bene che anche gli altri abbiano i loro stessi diritti (non più né meno: gli stessi). 
Né io né il mio compagno di viaggio Ciuffo (sì, esatto, quello con la testa che sembra un mezzo capitello ionico) sapevamo ancora che due giorni dopo, Sabato 6 Aprile, l’odio che quei contestatori dimostravano in una protesta pubblica sarebbe culminato nell’aggressione di Wilfred De Brujin.

Che in questo momento è in queste condizioni:

E a me adesso viene in mente questa cosa: che prima dei Giardini di Luxembourg, prima del Pantheon, prima della Sorbona, prima di St Severin, prima del Quartiere Latino, prima della libreria Shakespeare and Co, prima di tutto questo ma sempre quello stesso giorno, noi eravamo a Notre Dame. Un luogo estremamente denso di fede, e perfino io che sono ateo ho potuto sentire la forte spiritualità emanata da quella cattedrale. E mi ricordo di una bellissima canzone di un film ambientato a Notre Dame: c’è una ragazza, una zingara, che prega Dio affinché faccia ritrovare agli stessi suoi credenti quei principi che in mezzo a tanto odio sembrano aver smarrito.
Forse una parte di quei contestatori e forse chi ha ridotto così questo ragazzo, visto che pare abbiano tanto tempo da perdere, dovrebbero farsi un giro a Notre Dame.

Io non so se puoi sentirmi
e neppure se ci sei.
Né se ti soffermeresti sui pensieri miei.
So che sono una gitana e non oserei di più
che pregare intensamente 
per la gente come me.


Dio fa’ qualcosa
per quelli che
un gesto d’amore non sanno cos’è.
Dio, questa gente 
confida in Te e solo il Tuo Amore salvarli potrà.


Vorrei di più
di ciò che ho.
Vorrei per sempre la gloria e l’onor.
Vorrei l’amor: gioia nel cuor.
Che Dio mi aiuti ogni giorno, per sempre.


Grazie per quanto possiedo già.
Lo so, non è tanto, ma a me basterà.
Prego per gli altri, fuori di qua:
Falli sentire i figli di Dio.
Sono indifesi, ma figli di Dio.

Post su Parigi duemilaTredici
     #1 – Minuit à Paris

Pensare fa male alla pelle

Pochi giorni fa mia cugina, anni undici, mi ha detto che sono un tipo proprio attivo, perché il giorno prima ero andato in piscina, poi al corso di sceneggiatura e infine alle prove di teatro, cenando con un panino al prosciutto. Ha detto proprio così, “Ale, come sei attivo!”, facendomi immediatamente pensare a quei batteri dello yogurt che favoriscono la naturale regolarità della Marcuzzi. Per un attimo mi sono sentito il responsabile del processo intestinale della Marcuzzi, sì, cara Alessia, se caghi copiosamente ringrazia pure quelli come me.
Come sono attivo, ha detto mia cugina, e il complimento acquista maggior valore se si pensa che lei fa la quinta elementare (con brillanti risultati), pallavolo, violino e conosce tutte le relazioni che intercorrono tra le Winx, non so se mi spiego. Lei, che mi dette grande soddisfazione quando, a 8 anni, scrisse il tema “Descrivi il tuo mito” parlando di Katy Perry. 
In realtà non c’è niente di attivo in me: faccio tutte queste cose per tenermi occupato. Riempio di plastica e sorrisi finti dei pomeriggi che altrimenti sarebbero costruiti sulle lacrime. Ho imparato che quando sto male devo svuotarmi del dolore più che posso, dopodiché posso analizzare scindere sezionare razionalizzare teorizzare capire, insomma: lavorare su di me. E poi basta, fine, si ricomincia, perché è così che funziona.
Stavolta non mi riesce.
Analizzo scindo seziono razionalizzo teorizzo cerco di capire e comunque lavoro, lavoro e continuo a lavorare. Penso – e non è facile navigare nella mente, perché svolti un angolo ed è un attimo che vieni inondato da ricordi, voci e possibilità – ma penso troppo. I miei amici, ognuno a suo modo, dicono che adesso devo smettere di pensare, specialmente di pensare a dove sbaglio e a dove ho colpa. Pensare fa male alla pelle, come dicono gli Eva Mon Amour, pensare troppo fabbrica fantasmi e i fantasmi poi ti perseguitano.

Ecco perché sono attivo, cuginetta: per non pensare.

Tu non puoi credere che la ragione
debba dire a questo cuore come guarire.

La sindrome Call me maybe

Il problema di avere un obiettivo è che potresti raggiungerlo. Per portare un esempio puramente casuale e affatto riferito alla mia vita personale, quando intraprendi un corso di laurea non pensi che prima o poi finirai di studiare e ti troverai a confrontarti con un grande interrogativo: e ora che faccio?
Credo di essere una persona con un grande bisogno di sentirsi sempre in costante crescita, e ho sempre cercato di svicolare da questa necessità con una specie di camaleontismo che applico nelle scelte più sceme.  Per esempio, Sabato sera, preso da un’improvvisa voglia di trasgressività, ho indossato gli skinny bianchi e ho ordinato un Manhattan, cosa che non consiglio a nessuno dato che è un po’ come bere della candeggina da una coppa Martini. Ma tutta questa ecletticità nelle scelte è un insieme di piccolezze che acquisivano senso finché dietro stava il grande progetto universitario da portare avanti. 
In questi giorni, dunque, mi sento un po’ spaesato. Un po’ come deve essersi sentita quella tizia dal nome impronunciabile che canta Call Me Maybe che adesso cercherò su wikipedia perché non ho la minima idea di come inserire le vocali nel suo odioso cognome. Ecco: Carly Rae Jepsen. 
Pensateci: questa Carla Rai Gialappa fa una canzone (anche pesantemente idiota, diciamolo) e nell’incredulità generale delle case discografiche riesce a rincoglionire tutti, prendendosi quel successo totalmente immeritato di cui godono le popstar di questo tipo. Ma prima o poi si sarà dovuta confrontare con lo stesso interrogativo che si è posto a me. Sarà arrivato il momento, presumibilmente dopo un’orgia a casa di Hilary Duff, in cui la suddetta Clara Rea Jeep si sarà guardata allo specchio e, osservando il suo riflesso pallido dovuto all’astinenza da eroina, si sarà chiesta cosa cazzo sarebbe andata a fare.
La storia ci insegna che la cara Curling Re Geppi ha proseguito la sua carriera musicale partorendo canzoni con la stessa formula già collaudata, ossia un motivetto e un testo di portentosa demenza uniti a un video in cui lei cerca disperatamente di copulare con dei fregni cosmici. 
Ma non è pensabile una risposta analoga anche per il mio caso. Senza stare a farla troppo lunga, diciamo che mettersi in gioco è una cosa di cui, per il momento, sento un gran bisogno. E senza nulla togliere a Call me maybe, diciamo che è un’altra rockstar a cui mi vorrei ispirare.

I still don’t know what I was waiting for
And my time was running wild
A million dead-end streets
Every time I thought I’d got it made
It seemed the taste 
was not so sweet
So I turned myself to face me
But I’ve never caught a glimpse
Of how the others must see the faker
I’m much too fast to take that test

Dove cazzo siete

Se avesse vinto il partito che ho votato, io starei esultando; se il mio movimento politico che era dato per sconfitto riuscisse a rimontare così tanto, fino al punto da praticamente eguagliare gli avversari (quelli che avrebbero dovuto stravincere, viste le condizioni di partenza), io mi starei sperticando in lodi nei confronti della grande rimonta, e magari lo scriverei su facebook, su twitter, sui social, e forse andrei in giro a parlarne, chiamerei i miei amici per dir loro quanto sono contento che il mio Paese ha scelto bene, il mio senso civico sarebbe gioioso e carico e felice, sarei orgoglioso di appartenere a una forza così importante,
e invece voi niente, neanche un mezzo commento, neanche un Sì l’ho votato perché mi toglie l’IMU / ha comprato Balotelli / è un grande comunicatore / tanto fanno tutti schifo, voi niente, non vi esprimete, non vi esponete, sembra quasi che vi vergognate, non dite niente, state zitti, ma esistete? e io non posso fare a meno di domandarvi, 
CARI ELETTORI DEL PDL,



MA VOI



DOVE CAZZO SIETE?




Campioncini emozionali

Non c’è niente da fare: le donne saranno sempre un passo avanti agli uomini. Forse non sapranno le regole del fuorigioco (a parte le lesbiche), e magari non sapranno apprezzare la differenza che c’è tra una Tennent’s e una Peroni (a parte le lesbiche), ed è molto probabile che non sappiano indicare i componenti meccanici di un’automobile (ma quello nemmeno i maschi, dai, forse giusto giusto le lesbiche più convinte), ma per il resto le donne ci sono superiori in tutto e per tutto. Hanno alcune regole che sono di un’importanza vitale.
A cominciare dal dogma fondamentale dell’esistenza femminile: mai rifiutare i campioncini.
Qualche anno fa dovevo comprare un regalo per una mia amica, e un’altra mi accompagnò. Il regalo in questione consisteva in una crema corpo, che è una cosa che io ho scoperto esistere proprio in quell’occasione: è una poltiglia che ti metti addosso dopo la doccia per renderti la pelle più profumata e idratata e tutti questi tattici participi passati che si trovano sulle confezioni dello shampoo.
Entrai in questo negozio chiamato L’Erbolario – attenzione: MAI dare il vostro numero di telefono a quella profumeria, io molto ingenuamente compilai un modulo e da allora mi arrivano pubblicità in continuazione. Lunedì scorso mi invitavano alla “settimana degli agrumi” e io mi sono immaginato di affogare tra le arance e faccio ancora gli incubi – e presi questa crema corpo alle spezie orientali. Dopo aver pagato, la commessa mi chiese se volevo dei campioncini gratuiti. Io la guardai un po’ attonito, come per dire Grazie ma che me ne faccio?, e dissi Grazie ma che me ne… ehm, no, grazie.
Quando sono uscito dall’Erbolario l’amica che mi aveva accompagnato mi distrusse psicologicamente: bisogna sempre accettare i campioncini. Che ne sai di com’è un prodotto se non lo provi? Che ne sai se non t’innamoreresti di quel profumo, o di quella crema? Che ne sai che quel campioncino non sia proprio ciò che fa al caso tuo? 
Vi avviso che adesso inizia il trip, cioè la parte dei miei post in cui svalvolo e dico stronzate.
Mi è venuto in mente che ci vorrebbero dei campioncini per tutte le cose. Anche per le emozioni, dico. Voglio dire, abbiamo una vita sola, e non lo so mica se basta per provare tutte le emozioni, belle o brutte che siano. Ho sempre pensato che provare un certo sentimento aiuti a formarsi un’opinione su di esso quando ricapiterà. 
Provare le emozioni aiuta a essere intelligenti, penso. Però per forza di cose non possiamo provarle tutte. Non c’è tempo, e comunque la vita ci forma in un certo modo, con questi pregi e questi limiti. Per questo sarebbe bellissimo se esistessero i campioncini emozionali. Tipo Essenza di Rihanna, per sentirsi una scostumata popstar, o anche Materia Grigia di Einstein, e per cinque minuti saremo in grado di risolvere diseguazioni logaritmiche di ottantesimo grado, e poi non lo so, Neurone di Gattuso, per perdere l’uso del congiuntivo e riuscire a interagire con le veline, e poi uno che non saprei come chiamare, per farti capire cosa provo quando ti vedo ridere.

Siamo tutti bipolari

Tempo fa sono uscito con un ragazzo che si autodefiniva bipolare. A dirla tutta si autodefiniva anche bisessuale, e questo mi ha fatto pensare che fosse inconsciamente attratto dalle parole che iniziano per bi, e magari indagando meglio avrei scoperto che si sarebbe autodefinito anche bimensile, bilocale, bimotore, binocolo, biossido di carbonio e bidet
(se non l’avete già capito: non è andata, e questo mi dà il permesso di parlarne malissimo e sputtanarlo in tutti i modi in tutti i luoghi e in tutti i laghi)
Ad ogni modo mi incuriosì questo suo rivelarmi, dopo appena mezz’ora di appuntamento, di essere affetto da una sindrome psichiatrica che può essere molto grave. Per carità: è vero che nel gergo comune si usa la parola bipolare come sinonimo di lunatico, ma questo tipo (che ricordo essere pelato, basso e brutto, l’ho già detto che non è andata?) studia Medicina, e ho pensato che un aspirante medico dovrebbe utilizzare la terminologia clinica un pochino più propriamente.
Per sincerarmi che non avrebbe avuto bisogno di un ansiolitico di lì a poco, gli ho chiesto cosa intendesse per “bipolare”. Eh – mi ha risposto – che cambio umore facilmente
Sì ciao. Tu non sei bipolare, tu sei lunatico, tu sei instabile, tu hai bisogno di recitare in un musical per sfogare il tuo smisurato egocentrismo, ma non sei bipolare. Non è andata, vi rammento, abbiate pietà. Gli ho detto: beh, senti, ne riparliamo dopo che hai dato Psichiatria.
Questo appuntamento mi ha fatto riflettere riguardo varie cose: intanto che un sacco di gente photoshoppa esageratamente le foto che ti manda in chat. E poi che c’è una differenza tra l’essere interessanti e il volerlo essere. Se sono costretto a inventarmi di avere un disturbo psichiatrico per attirare l’attenzione, ho davvero bisogno di una flebo di autostima. 
Nel senso, meglio aprirsi un blog.