• De André, il cantautore degli ultimi che sono ancora ultimi

11 GENNAIO 2019
Cose che penso

«Spesso si odiano le cose soltanto perché non le si conoscono»
– Fabrizio De André, 20 febbraio 1997

La prima volta in cui ricordo di aver avuto a che fare con Fabrizio De André era per un compito di scuola, che consisteva nell’analizzare La guerra di Piero come se fosse una poesia. Quindi avevo stampato il testo e stavo evidenziando le allitterazioni, quando mio papà passa dalla cucina, getta uno sguardo sul foglio e mi chiede: Che fai, colori le lettere uguali? Mi fa ancora molto ridere se ci penso.

In un altro episodio invece ricordo mia mamma mentre mi mostra le sue antiche musicassette su cui aveva registrato le canzoni di De André, immagino diversi anni prima, nella preistoria probabilmente. Ma non dovrei fare tanta ironia, visto che ho già diversi acciacchi e il mio sabato sera ideale è composto da una tisata calda a letto davanti a una replica di Ballando con le stelle. Comunque, per chi di voi non era ancora nato, le musicassette sono una specie di Spotify un po’ più macchinosa, ma senza pubblicità.

Non posso dire di essere un grande esperto di Fabrizio De André, ma l’ho ascoltato per molto tempo e continuo ad ascoltarlo ancora. Ho attraversato varie fasi. Ho iniziato con Il Pescatore, poi ho avuto il mio periodo Dolcenera, per qualche mese immaginavo di mettere in scena La ballata dell’amore cieco, a un certo punto della mia vita ho cominciato a odiarlo perché tutti lo citavano in continuazione, e circa un anno fa ho ascoltato La canzone dell’amore perduto, a ruota, per non so quante volte, a dimostrazione di un amore ritrovato.

L’11 gennaio 2019 ricorre il ventennale della morte del Faber, ed è assurdo se si pensa che in questi vent’anni io ho continuato ad ascoltarlo senza stancarmi. Perché? Il repertorio di De André possiede quella bellezza che non passerà mai di moda. È come la vera letteratura: è tale perché sa resistere agli anni. Ma non è solo questo. Ho l’impressione che sia troppo semplice ridurre De André alla bellezza dei suoi brani.

Io penso che ascoltare De André sia ancora un atto necessario. De André cantava gli ultimi, e questo ce l’hanno sempre detto tutti. Ma quello che forse non abbiamo capito è che per lui, gli ultimi, gli emarginati, i diversi, i vinti, sarebbero stati i futuri vincitori.

«Negli anni Sessanta cantavo un mondo di emarginazione, sicuramente meno popoloso di quello di oggi almeno qui in Occidente, mettendomi da quella parte e da quella parte invocando ingenuamente una improbabile pietà» scrive il cantautore nei suoi appunti, pubblicati nel testo Anche le parole sono nomadi (edito nel 2018 da Chiarelettere a cura della Fondazione Fabrizio De André Onlus). «Ieri cantavo i vinti, oggi canto i futuri vincitori: i nomadi, le infinite prinçese, chiunque coltivi le proprie diversità con dignità e coraggio, attraversando i disagi dell’emarginazione con l’unico intento di rassomigliare a se stesso, è già di per sé un vincente perché muove la storia, perché è soltanto dai comportamenti non uniformi e non omologati al gregge della maggioranza che l’umanità, tutta l’umanità, riesce a trovare spunti evolutivi»

Spunti evolutivi che evidentemente non abbiamo ancora trovato, basta aprire un giornale, leggere una dichiarazione politica, alzare lo sguardo e vedere cosa sta succedendo. Per questo dico che De André è ancora necessario. È abbastanza alienante che Matteo Salvini, anche in una diretta Facebook di ieri pomeriggio, ricordi e apprezzi un cantautore le cui opere trasmettono dei messaggi totalmente in antitesi con le sue azioni politiche. De André ha parlato dei rom che Salvini voleva censire e dei migranti che Salvini si rifiuta di accogliere, al contrario di un pescatore assopito all’ombra dell’ultimo sole.

De André ha raccontato anche le donne, in una maniera che forse oggi potremmo definire femminista – ma non voglio attribuirgli una caratteristica così discussa. Mi suona strano che oggi ci siano progetti, anche ben eseguiti, che accostano la musica del Faber al rap o alla trap, quando questi sono generi che spesso comprendono musicisti capaci di cantare testi incredibilmente sessisti. Qualcuno che imita la voce di De André su un testo di Salmo, per fare un esempio, è la dimostrazione che forse quella voce la si è ascoltata poco.

Nei suoi appunti, infatti, leggiamo anche: «Fin da piccoli i bambini fanno la lotta, i bambini si picchiano e fanno la guerra; non così le bambine: che cos’è, un istinto diverso? Può anche darsi, il fatto è che verso i maschi c’è molta più condiscendenza da parte dei genitori, c’è una forma di educazione che quasi si compiace della violenza e questa educazione si è talmente radicata che la violenza è entrata nel caso dei maschi a far parte della memoria prenatale: cioè temo che i maschi nascano violenti più per stratificazione di cattivi insegnamenti che non per istinto. O, come minimo, nulla si è fatto per combattere questo istinto. Vi sembra che stia esagerando?»

Una delle canzoni che più mi stanno a cuore si intitola Andrea, e parla della storia triste di un uomo che viene a sapere della morte del proprio amato, partito per la guerra. È un brano che De André ha dedicato agli omosessuali, come ha dichiarato durante il tour del 1992.  «Andrea la dedichiamo ai “figli della luna” come li chiamava molto più poeticamente di noi Platone. Noi li chiamiamo gay o addirittura, con un eccesso, una sorta di compiacimento, “diversi”. La dedichiamo a loro perché per loro è stata scritta e ci fa piacere dedicarla a luci accese perché almeno in Europa, almeno oggi, nessuno deve più vergognarsi di essere quello che è.»

In un’intervista del 1997 al Corriere della Sera, Faber disse che spesso si odiano le cose soltanto perché non si conoscono. Lui ne aveva conosciuta qualcuna, di queste cose che le persone odiano, e ha provato a raccontarle. Era il suo modo di fare politica: parlare delle storie dei vinti li avrebbe fatti amare. Oggi gli ultimi che cantava De André sono ancora ultimi. Per questo continuiamo ad ascoltarlo. 

Andrea s’è perso s’è perso e non sa tornare
Andrea s’è perso s’è perso e non sa tornare
Andrea aveva un amore, riccioli neri
Andrea aveva un amore, riccioli neri

Roba affine
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