La mia personale e discutibile opinione su Muholland Drive e in generale quella roba artistica un po’ strana lì

L’obbligatoria premessa è che quella che state per leggere è, come da titolo, un’opinione personale e discutibile. Non mi aspetto di avere ragione, non mi aspetto di non potermi ricredere in futuro. Anzi, sono pronto alla discussione franca e aperta. Probabilmente la mia idea è superficiale e istintiva o, come direbbe Simona Ventura, di pancia. Non sono un cinefilo, un cinofilo o un cinafilo. Sono uno che guarda film. Metto lo zucchero nel caffè, non indosso coppole, non vesto total black e le occhiaie non sono l’accessorio fondante del mio look per quanto mio malgrado ne sia usualmente provvisto, tanto che nella comunità dei panda sono considerato molto sexy.
La prima impressione dopo aver visto Muholland Drive (David Lynch, 2001) è stata: e adesso chi me li restituisce i 147 (centoquarantasette) minuti di vita spesi per questo film?
Nessuno, ovviamente. Li devo recuperare sottraendo tempo ad altre attività indispensabili quali parlare con i miei pupazzi e fantasticare su come si comporterebbero i miei amici se fossero posseduti, che comunque è un po’ lo scheletro narrativo di Twin Peaks.
In realtà, ripensandoci a freddo, la visione di Muholland Drive, ieri, al Lucca Film Festival, introdotta nientepopodimeno che dal maestro Lynch in persona, che è molto simpatico e contrariamente alle aspettative riesce a parlare anche di argomenti che non siano la morte e il sovrannaturale, dicevo che non è stato totalmente tempo perso. Non parlo solo di un punto di vista registico (che glie voi di’ a come impugna lui la macchina da presa, è un genio), ma anche dal punto di vista emotivo, o, come chiamano i più recenti manuali di psicologia, il punto di vista D’Urso
Muholland Drive mi ha fatto una paura allucinante, molto più di qualsiasi horror o definito tale. Avevo un’angoscia dentro che mi ha costretto a percorrere il vialetto di casa tremando e sperando che dietro l’angolo non sbucasse un mostro o un violento assassino o Carmen Di Pietro. Questo fatto che ti pisci addosso dal terrore è senz’altro un aspetto positivo di un’opera.
È bello avere paura, ogni tanto. 
Tuttavia, io sono uno di quei fruitori che preferiscono un tipo di arte rassicurante e benefica. Sono talmente ansiogeno e insicuro di mio che alimentare la mia angoscia con questo tipo di prodotto non è esattamente salutare. Voglio essere coccolato e stupito, non sconvolto. Voglio uscirne bene. Di solito, non sempre. Lo ripeto, è bello avere paura ogni tanto; essere scossi, precipitare giù, respirare la fine con addosso un senso di indefinito, non capire.
Non solo: sono anche uno di quegli spettatori all’antica, ho bisogno di una trama per poter apprezzare un’opera. Forse sono limitato, ma un film dove conta di più la sensazione che la storia non mi è sufficiente. Mi lascia il sospetto di essere preso per il culo. È come fare una conversazione con un africano che ti parla in swahili e pretende che tu capisca. Peggio di interloquire con Aida Yespica. Io non lo capisco lo swahili, e nemmeno Aida Yespica.
Mi dispiace, ma sfido chiunque a guardare Muholland Drive e capire tutto al primo tentativo. È come guardare certi quadri: ti arrivano i colori, le linee, le forme, e dunque tante sensazioni, ma senti che c’è qualcosa dietro che non puoi comprendere, e non puoi squarciare la tela per trovarlo. Ecco, io da un film, da un libro, da un racconto, di solito, mi aspetto di più. Altrimenti mi guardo un quadro, auspicabilmente per meno tempo di centoquarantasette minuti.