Me lo corrompi, papà?

Il fatto che riesca a ricordare soltanto gli incubi e mai i sogni dovrebbe dare un’idea abbastanza precisa della mia personalità senza aver bisogno di consultare un luminare della psicologia. Quando mi sveglio non ho alcuna memoria di ciò che ho appena sognato e, secondo una rapida ricerca in rete che sconsiglio di effettuare a chi ha il mio stesso problema a meno che non voglia sentirsi un egocentrico e superficiale pezzo di merda, ciò è dovuto probabilmente a una scarsa attenzione per il mondo interiore, insieme a un pesante controllo su sé stessi e a troppa razionalità, oppure a ciò che da quando è iniziato il ventunesimo secolo siamo abituati a utilizzare come giustificazione di ogni nostro comportamento da stronzi, e cioè: “un periodo di forte stress”.
Essendo io molto stressato, succede che dimentico sempre il mio percorso onirico, ed è un peccato perché sono molto attento al mondo interiore, non tendo ad avere un ossessivo controllo su me stesso e sono razionale nella giusta misura, oltre che carino, simpatico ed estremamente intelligente.
Non biasimatemi, dunque, se per una volta che mi sveglio e mi ricordo alla perfezione ciò che ho appena sognato, annaspo con la mano sul comodino alla ricerca del cellulare e mi sbrigo a trascrivere tutti gli avvenimenti prodotti dal mio inconscio; e non biasimatemi se nelle successive due ore ho ammorbato svariati amici con la descrizione del mio incubo; e nemmeno dovreste biasimarmi se uso questo spazio per raccontarlo anche a voi. D’altronde, non mi capita spesso di sognare. E poi, be’, ho sognato Gianni Morandi.
Il sogno inizia in medias res, che è una formula che noi tutti impariamo in prima media senza che poi abbiamo mai occasione di usarla all’infuori della verifica di italiano. Mi trovo in montagna nel cottage di Gianni Morandi e della sua famiglia, e se vi state chiedendo come possa io esservi finito dovete mettervi l’animo in pace perché questo è un punto che non sono riuscito a chiarire nonostante il certosino lavoro di scavo operato sul mio povero inconscio.
Insieme a me, nel cottage di Gianni Morandi c’è il mio amico Ciuffo, che per chi non lo conoscesse è un ragazzo molto simpatico dalla testa tonda e dagli occhi grandi e sinceri, che un tempo aveva un pugno di capelli che svirgolavano verso l’alto conferendogli il soprannome con cui ancora oggi lo chiamano gli amici e perfino una considerevole parte di parentame.
Il buon vecchio Gianni Morandi è un ottimo padrone di casa. Ci accoglie con grandi sorrisi e parole ospitali. A un certo punto, apre un portone che dà niente meno che su una discesa di neve. Senza interrogarsi sul perché Gianni Morandi dovrebbe avere una pista per slittini in casa, il mio amico Ciuffo afferra un bob lì vicino e si getta tutto contento; io, che sono notoriamente più palloso, ringrazio Gianni Morandi dell’occasione ma gli comunico che soffro di vertigini e che pertanto non usufruirò della discesa. 
«Ma ti prego, Alessandro, dobbiamo arrivare a valle. C’è una sorpresa per voi!» esclama Gianni Morandi con la sua famigerata solarità.
«E va bene, Gianni Morandi, verrò a piedi.»
Una volta a valle, tuttavia, vedo qualcosa di strano. Proprio al limitare della discesa, una decina di sbarre emergono dalla neve. Guardando meglio, vedo che oltre le sbarre c’è il mio amico Ciuffo, evidentemente in stato confusionale. Sono perplesso. Mi volto verso Gianni Morandi per chiedergli se sapesse cosa stava succedendo.
«Gianni Morandi, cosa sta succedendo?»
Nel suo sguardo non c’è più traccia di sorriso. Alcune nervose imperfezioni del fondotinta rivelano delle rughe minacciose che gli rendono il volto vecchio e cattivo. I suoi occhi sono ridotti a fessure.
«Prendetelo» ordina Gianni Morandi, nella sua versione da malvagio dei telefilm anni Ottanta da cui sono evidentemente influenzato altrimenti non sognerei battute di dialogo così tamarre. Il punto è che mi ritrovo accerchiato da omoni nerboruti che mi prendono e mi gettano nella gabbia dove già si trova il mio amico Ciuffo.
La gabbia è circolare – un chiaro tributo del mio inconscio all’ultimo video di Sia – e Gianni Morandi ci guarda attraverso le sbarre. Non è solo: accanto a lui c’è il figlio Marco Morandi. Marco Morandi e Gianni Morandi ci guardano con un misto di serietà e perfida soddisfazione.
«Hai visto, figliolino? Li ho catturati…» dice Gianni Morandi.
«Sei stato bravissimo, papà» risponde Marco Morandi.
Io e il mio amico Ciuffo chiediamo spiegazioni, poi cerchiamo aiuto, ci disperiamo, urliamo, ma invano. Non c’è nessuno nei paraggi, ad eccezione dei due componenti della famiglia Morandi che ci fissano per tutto il tempo. 
«Adesso ci divertiamo un po’» dice Gianni Morandi, quando finiamo di gridare. La sua voce fa paura.
I Morandi inseriscono nella gabbia, uno per volta, una quindicina di pavoni. Il mio inconscio deve aver letto da qualche parte che i pavoni possono essere degli animali estremamente aggressivi. Ad ogni modo, gli uccelli incattiviti iniziano a rincorrere me e il mio amico Ciuffo, che piangiamo, gridiamo, e infine, stremati, ci offriamo ai pavoni per farla finita il prima possibile. 
È a quel punto che Marco Morandi pone fine alla tortura.
«E adesso papà devi corromperli.»
Okay, non ha senso, ma comunque dopo averci fatto rincorrere da pavoni imbizzarriti, i due Morandi ci liberano e ci promettono una quantità esorbitante di denaro in cambio del nostro silenzio.
«Ma quale silenzio, io vi denuncio sul mio blog!» replico io, senza alcuna logica, e proseguo argomentando: «Si chiama Zucchero Sintattico, e racconto i miei pensieri cercando di essere ironico ma offrendo talvolta interessanti spunti di riflessione, per esemp…»
«Infatti!» mi dà manforte il mio amico Ciuffo «e mettete anche il Mi piace alla sua pagina facebook, è molto simpatica!»
«Hai già raccontato dell’incidente?» mi chiede Gianni Morandi, che d’un tratto si è fatto preoccupato.
«Che incidente?»
«Papà, dannazione, ci siamo sbagliati, non sono loro i testimoni oculari del terribile incidente che ho provocato quando la notte scorsa guidando ubriaco ho investito due passanti innocenti dunque è del tutto inutile torturarli e cercare di corromperli in cambio del loro silenzio» conclude Marco Morandi, dando prova che perfino i miei sogni sono didascalici.
All’improvviso, una figura femminile sbuca da dietro un albero. È Taylor Swift, e ha una chitarra.
«Siete spacciati, Morandi: ho già inciso una canzone con la mia casa discografica in cui racconto il misfatto» dice Taylor, tra l’altro un’affermazione del tutto fantascientifica considerando che i testi della sua discografia riguardano amori finiti e irrecuperabili. «Da domani sarà prima sulle classifiche di iTunes, e per voi sarà la fine. Liberate subito Ale e il suo amico Ciuffo!»
Dopodiché mi sveglio, con la sensazione che qualcosa non torni e che, in un certo senso, sia meraviglioso così.

Cuore o croce

Ci sono voluti seimila anni, ma gli etero hanno inconsciamente deciso che è il momento di ipotizzare il timido abbattimento delle barriere sessuofobiche. Ho recentemente appreso, infatti, che sta diventando sempre più di moda la migliore invenzione della storia dell’umanità dai tempi della ruota, e cioè Tinder.
Tinder, ovvero una app spietata che consente di trattare sconosciuti e sconosciute come carne da macello, selezionarli nello stesso modo indifferente e consumistico che si usa per scegliere una maglietta da Zara, prendere appuntamento con uno di loro, o due di loro, o quaranta, e farci un po’ quello che si vuole. Meraviglioso, l’idea migliore dopo quella di insediarsi tra il Tigri e l’Eufrate.
Naturalmente noi gay, nei litri di tempo libero che ci avanza poiché non possiamo spenderlo a spedire partecipazioni e costruire bomboniere di porcellana (a proposito, fanno cagare), naturalmente noi gay ci eravamo già arrivati tempo fa a una tale disfatta sociale, tant’è che adesso ne abbiamo un po’ le palle piene di avere sempre le palle vuote e ritorniamo a fantasticare sull’amore e altre deliziose simili amenità, sempre con Express yourself in sottofondo. Noi gay, qualche secondo dopo che Dio ebbe creato lo smartphone, avevamo già Romeo, Grindr, Scruff, Bender, Growlr (che sono nomi fantastici da dare ai nostri gattini quando saremo vecchi omosessuali single e sordi), ossia tutte chat di incontri diverse ma con più o meno gli stessi iscritti, tanto che non si capisce come mai non creiamo un’unica chat oppure non ci troviamo nelle aree di servizio delle autostrade come ai bei vecchi tempi.
Comunque, in una scala da 1 a Miley Cyrus, questo Tinder ha un valore di degrado umano molto elevato. La cosa divertentissima e in un certo senso commovente è che quando lo accendi cominciano ad arrivarti le foto di altri utenti, corredate da una minibiografia e dalla distanza in chilometri dal tuo letto. Ciò che tu devi fare è cliccare sul cuore verde se il candidato è di tuo gradimento, se vuoi farci tanto frichi frichi e concedergli di parlarti, oppure cliccare sulla ics rossa se per te è no, giammai, non se ne parla, sashay away, sayonara eh eh eh eh. Poi il sistema ti manda la lista di tutti quelli a cui tu hai messo il cuore che ti hanno a loro volta cuorato, e con questi puoi decidere di chattare, andare e moltiplicarti. 
Capite bene che il meccanismo è crudele. Cuore o croce. Nemmeno un programma a caso di Federica Panicucci è mai stato così impietoso nell’oggettificazione delle persone. Ovviamente sto esagerando, ovviamente sto portando tutto a una visione superficiale della cosa. Come al solito, non è lo strumento il problema, è il modo in cui lo usa chi lo usa – vale per le chat di incontri, come per i social, come per i mezzi di informazione, come per le bombe a idrogeno. Però il dato da registrare è che siamo arrivati anche a questo: al bivio feroce, all’aut aut. Cuore o croce.
Poiché vorrei terminare questo mio scritto con un messaggio che almeno assomigli a qualcosa di vagamente incoraggiante e non ho la minima idea di come chiosare, vi ricordo un consiglio sempre valido. Usate i preservativi. 

Casistica dell’idiozia

Quando non partorisco idiozie sufficientemente geniali mi sento sotto pressione.
Ragazzi, fidatevi, il mondo di noi sproloquiatori di assurdità è insidioso. Essenziale è la puntualità tra originalità e rispetto del tempo comico; senza considerare l’altissima competizione e le continue reazioni di noiosi umani interessati al tuo livello di tossicodipendenza o al nome del tuo spacciatore, che tra l’altro si chiama Gigino e lavora ai giardinetti tra Regina Margherita e Corso Cairoli.
Per concepire idiozie bisogna essere al posto giusto nel momento giusto. È come trovare un fidanzato. O un fungo.
Le due variabili da considerare, nel caso siate interessati a scrivere idiozie, a trovare fidanzati o mangiare funghi, sono l’originalità (talento, genialità, cose belle) e il momento (culo, fortuna, precisione, tempo comico). Sì, perché è inefficace dire qualcosa di molto stupido se qualcun altro dice subito dopo qualcosa di molto più stupido.
Ne consegue che possiamo elaborare la seguente casistica.
1) originalità alta + momento giusto: è un’idiozia che si prende il suo spazio perché ne ha bisogno per essere efficace appieno. Non ha influenza a livello di trama, se non per caratterizzare un personaggio. 
dal film Pitch Perfect
2) originalità alta + momento sbagliato. Chiariamo subito che per momento sbagliato non si intende l’aver scelto male il punto in cui dirlo, ma anzi proprio a causa del suo essere insolito, il tempo comico riesce. Non ha influenze a livello di trama, ma smorza una situazione troppo razionale con una parentesi, anche impercettibile, di stupidità.

dal film L’era glaciale
3) originalità bassa + momento giusto: corrisponde al distillato di demenza fatto passare per perla di saggezza, e proprio per questo risulta essere assolutamente comico.

dal film Gli Aristogatti
4) originalità bassa + momento sbagliato. Si tratta di una frase stupida, senza alcun intento comico, inserita in maniera avulsa dal contesto. L’effetto sullo spettatore è quello di produrre un certo sconcerto che sfocia presto in copiosa ilarità.
dalla webserie The lady, di Lory Del Santo
Credo sia tutto. 

Tentativi improbabili di stare bene

Quello che ho capito di me stesso è che vivo male.
È come se il mio cuore avesse perennemente impostato il filtro Brannan di Instagram, quello che delinea bene i contorni e mostra tutto più scuro. 
Le persone gioiose e spensierate di solito utilizzano il Rise, che in effetti è un filtro molto arancione e luminoso ma se proprio devo dirvi la verità a me sembra che renda i soggetti ritratti a un passo dalla carbonizzazione cutanea. Di solito lo uso per chi non mi sta simpaticissimo.
( ora, apriamo una parentesi – a volte nella vita bisogna aprire le parentesi, a volte no, Dio, sembro Francesco Sole. Io sono contento di questo mio modo d’esistere. Riesco a notare, pensare e sentire cose che non potrei percepire se avessi un altro tipo di sensibilità. Rido anche molto, per esempio )
Vivere male, dunque, non è la cosa peggiore che possa capitare a un essere umano ma diciamo che serve parecchio tempo per sviluppare uno spirito d’adattamento adeguato a sopportare il resto della società che invece vive top favola
Tale spirito di adattamento si concretizza in un assortimento grottesco di trucchi, metodi e mantra. Esistono dei libri che li illustrano, ma io ho capito che spendere soldi in libri di psicologi improvvisati che non vi conoscono direttamente, che non hanno mai visto le vostre espressioni e che non sanno davvero come siete non è molto producente per voi. Ognuno deve inventarsi le proprie tecniche, per il principio che tu sei il miglior conoscitore di te stesso – adesso sembro Marzullo, ma che ho oggi?
Sì, insomma: solo tu puoi capirti. Be’, tu e l’oroscopo di Rob Brezsny, anche lui può capirti. Tuttavia, ho deciso di illustrarvi – completamente a gratis, vi prego di notare – la tattica che ho inventato stamattina. Sapete, mi sono svegliato stressato e pulsante di vivide paranoie, come al solito. Allora ho brevettato questo gioco, che potete scaricare e stampare e provare da casa. Non vi spiego le regole, è molto intuitivo.

Indagine sui fan dei Backstreet Boys

Tutti hanno avuto quattordici anni. 
Tranne chi ne ha tuttora tredici, dodici, undici, dieci, nove, otto, sette, sei, cinque, quattro, tre, due e mezzo, due, uno e tre quarti, uno e mezzo, uno, zero, BUON ANNO!, e chi è ancora nelle vigne di Bergamo (che è il posto dove secondo i miei genitori stanno i bambini non ancora concepiti, cioè praticamente dove volteggiano come tante animelle quelli che in potenza possono diventare i nuovi nati, quindi una specie di iperuranio dei nascituri).
Tutti hanno avuto quattordici anni e, sotto sotto, tutti vorrebbero tornare ad avere quattordici anni. Deve essere per questo che la piazza che ospitava il concerto dei Backstreet Boys, ieri, pullulava di gente. 

I fan dei Backstreet Boys sono perlopiù ragazze, di età compresa tra i venti e quaranta, indossano soprattutto shorts di jeans e toppini fosforescenti ma soprattutto hanno una disperata urgenza di anni Novanta.
Perché dai, possiamo ammetterlo molto tranquillamente: i Backstreet Boys non è che siano grandi cantanti o musicisti, e in realtà non sono nemmeno così carismatici come altre star della musica commerciale (sono molto simpatici ed energici, questo è innegabile, hanno cantato e ballato per due ore, ci vuole una certa resistenza, nel senso che io dopo una macarena mi accascio tra mille rantoli, per dire). 
I Backstreet Boys sono cinque ragazzi americani che si chiamano Kevin, Brian, Nick (“uuuuuh!”), A.J, Howie, Dewey, Louis, Pinco, Panco, Cip, Ciop, Waka Waka Eh Eh, e Adolf. È la boyband più longeva della storia della musica, ma è soprattutto nei nineties che ci faceva sognare. Il successo planetario di questi ragazzi è documentato dai milioni di dischi venduti, dalle innumerevoli nomination ai Grammy, dalle classifiche su cui svettavano prima di un lento e malinconico declino degli anni Duemila
E adesso mi dispiace dover spezzare l’incantesimo, ma io sono a favore della verità. Tocca a me, ancora una volta, riportarvi tutti alla triste realtà. I Backstreet Boys sono svaccati come nessuno di noi spera di fare mai. Chi era al concerto non può capire, chi non era al concerto non può capire. Io stavo lavorando al mio solito muretto, poco fuori, e questo mi garantiva di mantenere una certa lucidità che adesso mi consente di farvi ragionare.
A voi non piacciono i Backstreet Boys, ragazzi. Voi siete obnubilati dal bisogno estremamente umano di non pensare, di tornare indietro a quando l’unico problema era la coda troppo lunga di Snake. A quando passavate le sere estive davanti a Giochi senza frontiere mangiando un Calippo o un Winner Taco. A quando non c’era Youtube ma il Festivalbar sì, e andava alla grande così. Voi avete bisogno della musicassetta con Max Pezzali, dei poster di Cioè, della coreografia di Stop right now, di sapere come andrà a finire tra Ross e Rachel ma sperare e sperare e sperare che non si lascino mai. 
Ecco cosa amate, fan dei Backstreet Boys. E non mi fraintendete, io sono con voi. Backstreet’s back, e per me, che non ero sotto il palco a osservare le loro pancette alcoliche e l’invecchiamento dei loro volti e gli stessi balletti di vent’anni fa, sono stati soltanto la dimostrazione del passare del tempo. 
Però era bellissimo, vero?
LE INDAGINI SUI FAN

Indagine sui fan dei Prodigy

Mi hanno assunto nel servizio di sicurezza del Lucca Summer Festival. 
Sì, anche a me ha fatto strano. Ho mandato il curriculum perché quando uno cerca lavoro lo manda un po’ ovunque, e così dopo averlo portato in pizzerie, ristoranti, librerie, negozi, gelaterie, supermercati, aziende di grafica e canili è stato il turno dell’agenzia di sicurezza e investigazioni.
(nelle prossime due righe metterò un asterisco ogni volta che faccio dell’ironia)
Mi hanno preso come aiuto* alla sicurezza, e ciò non mi ha sorpreso molto*, vista la mia forza*, la mia presenza* imponente*, il mio sguardo da duro*, la mia altezza* invalicabile* e la mia stazza irremovibile***.
Il mio ruolo è quello di sorvegliare un muretto. Capite bene che è un compito di straordinaria responsabilità. Sono due giorni che passo le serate con questo muretto, tanto che ho iniziato a volergli bene come se fosse, non proprio mia madre, ecco, però un cugino sì, lo chiamo per nome, il mio muretto, lo nutro, mi prendo cura di lui, lo consolo quando è triste, gli faccio le coccole e insomma sì, avete capito bene: sono ancora single e sempre più schizofrenico. 
Passo sei ore in piedi a sorvegliare il mio muretto tentando di assumere l’atteggiamento più vigile possibile. Incrocio le braccia, aggrotto le sopracciglia per ricreare dei lineamenti torvi e squisitamente ostili e divarico le gambe – quest’ultima cosa mi fa sembrare una che sta per sgravare in piedi. Devo stare in piedi, fermo, con le braccia incrociate, senza parlare al cellulare o allontanarmi dalla posizione. É una palla, insomma.
La cosa positiva è che ho un sacco di tempo da spendere nella mia attività preferita dopo mangiare, bere, dormire, scrivere, fare sesso (ma non ricordo come funziona di preciso), leggere, fare shopping, ascoltare la musica, giocare a Gira la moda, perculare quelli con le Hogan, dividere un mazzo di carte a seconda del seme, rubare, pulire il bagno e intagliare figure geometriche sui tappi di sughero. E cioè l’osservazione dell’umanità. 
Ho modo di osservare uno spaccato di umanità avente una caratteristica comune: quella di ascoltare la stessa musica. Se ci pensate, è una grande fortuna: non devo fare lo sforzo cerebrale di selezionare da un insieme elementi aventi la stessa peculiarità, perché sono le stesse persone che si autoselezionano nel momento in cui decidono di acquistare il biglietto. Le mie uniche energie devo spenderle nell’osservazione e nella documentazione. 
Si dia quindi inizio all’indagine.
Sugli ascoltatori dei Prodigy non ho molto da dire, intanto perché questo post è già lungo così, e poi perché era il mio primo giorno e sono stato molto impegnato a non farmi cazziare sul posto di lavoro (sorvegliare un muretto comporta grandi responsabilità, Peter). 
I fan dei Prodigy sono più patatoni di quello che ci si aspetta. O forse è colpa della droga. Ho notato che molti se ne strasbattono del concerto e vanno a giro per la piazza. Una possibilità per spiegare questo comportamento è che siano talmente strafatti da non rendersi conto che hanno speso quaranta euro e che quello che stanno ascoltando è il gruppo dal vivo e non uno stereo acceso e nemmeno le vocine del cervello. 
I fan dei Prodigy sono molto socievoli. Saltano molto, quasi mai a tempo, si scatenano, ballano indipendentemente dalla presenza della musica. Bevono con soddisfazione, e sono molto interessati al chioschetto delle birre. Sono abbastanza disinvolti nel decidere che un determinato alberello può diventare una latrina occasionale. Solitamente hanno tatuaggi o arnesi di ferro nel viso, ma questo è un commento che potrebbe fare mio padre quindi magari adesso lo cancello. Sono educati, dopotutto, nonostante l’idea che si può avere di loro. Non ti picchiano. Non fortissimo. Limonano parecchio, poi. Quasi quasi inizio ad ascoltarli anch’io, questi Prodigy.